mercoledì 17 dicembre 2008

Natale alle Giubbe Rosse

Il mastro libraio se ne stava rinchiuso nel fortino, con lo sguardo fisso verso il varco dal quale Loro, stavano penetrando in massa.
- Eccoli! Arrivano! Avete capito perché questo periodo si chiama “l’avvento”? – Disse serafico alla truppa degli spaccialibri.
Ritto, impavido, pronto a fronteggiare l’annuale calata dei barbari, con in mano l’unica arma a sua disposizione. Una pistola a lettura ottica.
Bip…e fuori uno! Bip…
- Mi scusi è arrivato il libro di mio figlio? - Chiese a bruciapelo una mamma, ancora convinta di non passare inosservata.
Bip. – Signora, senta, ce l’ha un nome l’autore…o almeno questo fantomatico figlio?! – Bip. - O vuole il calendario di Frate Indovino? Avanti il prossimo!
- Io no trofare qvesta libra di Goethe… dove messa? Foi aiutare me ! Bip.
- Ma certo signora! Tanto per cominciare, i dizionari di tedesco-italiano sono da qvella parte. Bip.
- Senta, cercavo “L’Amante” di.., ehm, beh, ha presente no? …Solo che ho dimenticato a casa la tessera … si può fare qualcosa? – Bip. – Ma cerrto! Si cali le brache signora…che le faccio risparmiare anche i soldi del libro!
Intanto, nel fortino disposto a quadrato, forse di asburgica concezione, dietro due postazioni di difesa, le giubbe rosse tentavano di arginare l’assalto. Bip.
Il mastro libraio dal canto suo, con tono solenne e magnanimo, proclamava:
- .. Sono solo settantacinque euro!
- Mi scusi, - fa una vocina, - potrei avere uno sconto!?
- Ma certo, - replicò il nostro, – alla libreria di fronte!
Pavida, di fronte a tale sentenza, la vocina abbozzò. - Ma non c’è nessuna libreria, di fronte…
- Signorina, – riprese il mastro sfregandosi le mani davanti agli ampollosi occhi della giovane, - ripeta con me! “Sono solo…”
- “S..S..Sono solo,…” sussurrò la signorina di facile ipnosi…
- …Settantacinque euro!
- Settanta.. cinque… eur…
- Brava! – Concluse il gagliardo dallo sguardo maliardo. – Ha la tessera?!
- No… - fa la vocina.
- Come no?! Questo è molto grave signorina…- ma vedendola acquattarsi di lato, riparò su un più gentile,- Suvvia, a tutto c’è rimedio…
Bip. Nel frattempo la situazione si faceva insostenibile, e l’atmosfera natalizia sempre più afosa.
- Scusi, è uscito l’ultimo di Nino Manfredi… l’Ultima legione? – Bip.
- Certo! Sono solo ottocentocinq…Bip.
- Oh Giove pluvio! Ho perso la tessera, e avevo dentro ben millequattrocento punti, non è che può farmi credito?!
Uno sguardo esausto, che conteneva in sé già la risposta, ricadde sulla giovine. - Signorina, ma cosa ho scritto qui, Babbo Natale? Eh? Vede le renne lei qui dentro? Forse dovremmo fare un presepio vivente?!
Un barlume balenò negli occhi del mastro libraio, e tutti quelli che lo conoscevano, temevano questo genere di eventi. – Che idea! Il presepio vivente alle giubbe rosse! – Concluse infine.
- Noi due andremo a prendere un caffè.. – sussurrarono due giubbe rosse defilandosi, con aria di diserzione.
- Silenzio! Voi due furbetti con la coda, farete il bue e l’asinello! Gli altri uomini invece, saranno i re magi!
Attimi di sgomento tra la truppa, mentre la calca dei clienti si era arrestata per assistere a quella pantomima teatrale, peraltro pure gratuita.
- Ma vestiti come? – Disse un potenziale Re Magio.
- Con le giubbe rosse e la barba bianca.. – Sentenziò.
- Ma così sembriamo Babbo Natale!
- Silenzio! E’ lui che ci ha copiato la divisa…! – Disse, dando l’aria di avere le prove.
- E le donne… cosa faranno? - Chiese un Re Magio invidioso.
Mumble, mumble, pensò il Mastro libraio accarezzandosi la mascella sbarbata. - Ci sono! Le donne faranno le pecorelle del presepe!
Un belato in sottofondo commentò la notizia con malcelato sdegno.
- E cosa dovremmo indossare per l’occasione? – Sbottò una di loro, preoccupata di non aver niente di ovino da mettersi ..
- Facilissimo, anche voi metterete le giubbe rosse e la barba bianca! – Fu la risposta.
– Ma come? - Squittì una di loro, - noi vestite come i re magi? Non sia mai! Ci confonderanno!
- Ma no! - Disse il mastro dal pulpito, - perché voi starete su quattro zampe!
- Ma è scomodo e poi, ci pesteremo la barba… - Il clientelame iniziò a parteggiare per il gentil sesso, e un brusio di fondo dava segnali di rivolta.
- Silenzio! – Tuonò il mastro a braccia alzate. - Sempre a lamentarsi! Mondine sottratte alle risaie che non siete altro!
- Io, il Re magio non lo faccio! – Approfittando del momento, altri si defilavano. - Piuttosto faccio la pecorella!
- Ammutinamento! – Si udì urlare dal pulpito. – Ebbene faremo con due, sempre meglio che avere un Re mogio!
Intanto uno della giumenta, disse la sua.
- Ecco. Ci mancherebbe solo l’albero di Natale adesso…
- Beh, io posso metterci il Pino, – disse un omonimo di passaggio.
- Fantastico! – Si compiacque il creatore del presepe. - Adesso siamo pronti, tutti ai posti di combattimento…
- Ma è un presepe vivente o un’esercitazione di guerra? – Fa un cliente inascoltato.
- …bisogna essere pronti, sta per uscire il ventunesimo libercolo della figlia della Rowling, “Harry Potter fugge dall’Ospizio di Azkaban…”
- Mastro libraio ci scusi, ma chi lo fa Gesù bambino?
Con un ghigno satanico stampato in viso, si sfregò le mani e replicò:
- Qua dentro di Padre eterno, ce n’è soltanto uno …

- Fine prima parte –

sabato 18 ottobre 2008

Solo

La porta del frigo si aprì. E una luce fioca irrorò la stanza buia.
L’ultimo uomo sulla terra era seduto a tavola, in cucina. Mangiava una pizza, al buio.
Aggrottò la fronte, già increspata dal tempo. Gli venne sete.
Puntò lo sguardo sul frigo. Qualcosa di anomalo stava accadendo al suo congelatore.
Si muoveva.
Forse c’era qualcosa di vivo nel frigo. Altrimenti, pensò, sarebbe rimasto fermo.
Chissà se quella cosa che si muoveva nel frigo era buona da mangiare.
O se piuttosto, era lei che voleva mangiare. Un trancio di pizza gli andò di traverso.
In ogni caso, adesso erano almeno in due lì dentro.
Il frigo era ormai giunto a due passi da lui. Semi aperto. E da come si muoveva, sembrava proprio che volesse andare a fare altri due passi. Nella sua direzione.
Cercava di pensare a qualcos’altro. Ma gli riusciva difficile.
Le birre erano nel frigo. Grazie a questo, almeno avrebbe evitato di alzarsi per prenderne una.
Il frigo si mosse. Le bottiglie tintinnarono, e qualcosa cadde per terra.
L’uomo, si mangiò l’ultimo trancio di pizza.
Ripensava al passato. Forse perché gli rimaneva poco da vivere.
Il suo pensiero era volato indietro nel tempo, quando vide un uomo seduto sulla Piazza Rossa che beveva un caffé americano. Capì in quel istante che la guerra fredda era finita.
Ma non nel senso che immaginava. Nessuno aveva immaginato che una guerra smette di essere fredda, quando si riscalda.
Ed ora, era rimasto solo lui a raccontarlo.
Il frigo fece un altro passo. Si era messo a tavola con lui.
Un gorgoglio sinistro e inumano usciva dalla porta semi aperta. In cucina si sparse un odore di muffa.
L’uomo allungò una mano, con un gesto secco. Azzardato. E la infilò dentro il frigo.
Un istante lungo un secolo. La mano incontrò qualcosa di freddo. Ma non si stupì. Era pur sempre un frigorifero.
Ne uscì indenne. Con una birra stretta tra le dita.
Fu allora che la porta del frigo si spalancò di colpo.
La luce lo investì nel buio della stanza e quasi lo accecò.
Un formaggio ormai multi colore, era la cosa che più si avvicinava alla vita, dentro quella fredda sorgente di luce.
La speranza di una scoperta tramontò. Nessuna sorpresa, fu la peggior sorpresa.
Qualsiasi cosa fosse stata, avrebbe interrotto il predominio del numero uno.
L’ultimo uomo sulla terra si sentì solo.
La propria mente non era più sua alleata. Ricercava altrove la compagnia che lui non sapeva più darle.
Giorno dopo giorno, si allontanava sempre più, in cerca di qualcuno o di qualcosa migliore di lui.
Oggi un frigorifero. Domani… chi gli porterà a tavola?
Anche lei voleva abbandonarlo. Come tutti gli altri.
Il freddo del frigorifero si impossessò di lui.
Non poteva permetterlo. Non l’avrebbe lasciata andare via. Era la sua mente. Sua, e solo sua.

In una mano teneva una birra, e nell’altra una pistola.
Appoggiò la prima alle labbra e la seconda dove stava colei che voleva abbandonarlo.
L’ultimo uomo sulla terra stava seduto in cucina con una pistola alla testa, quando bussarono alla porta.
Fece un sorriso. L’ennesimo inganno della sua mente bacata?
La curiosità era forte.
Lo sfiorò il desiderio che alla porta vi fosse una donna.
Forse era proprio la donna dei suoi sogni, quella che passava a trovarlo ogni notte, incantevole, seducente e…
No! All’improvviso, il timore di sentire il suo nome prese il sopravvento.
Non poteva essere quello che stava prendendo forma nella sua mente. Era una beffa troppo grande da sopportare.
Se avesse detto di chiamarsi proprio Eva, sarebbe bastato come prova per dimostrare che era solo un tentativo della sua mente di prendersi gioco di lui?
Il sorriso del novello Adamo, divenne un ghigno.
Vivere con qualcuno, era da tempo il suo unico desiderio. Ma ora , stava diventando un incubo peggiore dell’attuale. Fra poco, non avrebbe neppure saputo distinguere tra realtà ed inganno.
Doveva chiudere i conti finché era in grado di farlo. L’ultimo respiro, lo avrebbe usato per urlare a colei che teneva sotto tiro, che non avrebbe vinto.

mercoledì 1 ottobre 2008

La Voglia Stereo

Appena entrato nel locale non poté fare a meno di notarlo.
Se ne stava lì sospeso e al tempo stesso, invadente e spietato.
Non risparmiava nessuno. Uomini o donne che fossero, dovevano tutti fare i conti con lui.
Dentro quel affollato locale, regnava una tranquillità apparente, malcelata dietro una tensione di fondo.
Nel bel mezzo della serata decise di avvicinarsi come non aveva osato fare nessun altro sino a quel momento.
Gli si sedette proprio di fronte. Lo squadrò, lo fissò e mentre stava per sistemarsi la cravatta, tra loro due si frappose il gestore di quel misterioso locale, di cui aveva sentito tanto parlare.
Strane storie su quel posto. Voci contrastanti. Ma del gestore nessuno sapeva niente.
Decise allora di prendere una birra e gli servirono una Lucifer. Birra belga dissero. Sogghignando accettò, e dato che l’altro lo fissava, decise di fare il primo passo.
- La Voglia, - esordì, – nome sagace e conturbante per un locale serale, per non parlare del nome della birra.
Ma dall’altra parte non giunse alcuna risposta. Il gestore, si limitava a squadrarlo con uno sguardo eloquente ed altrettanto schivo.
Il cliente lo lasciò perdere e riprese da dove era rimasto. La cravatta.
Mentre si sistemava notò che la sua immagine si rifletteva impietosamente. Quello specchio era spietato come pochi. Non si era mai visto così. Aveva un aspetto terribile, sfatto, con barba lunga e occhi infossati. Non riusciva ad accettarsi, al punto da non potersi guardare più di pochi istanti per volta.
Fu pervaso da un disagio crescente, eppure non riusciva a staccarsi dalla curiosità e dal modo con cui quello spettacolo incombeva su di lui. Il gestore pareva essersi accorto del suo disagio e con un gesto di sfida, si avvicinò allo specchio.
Il cliente trasalì. Non credendo ai suoi occhi, notò che l’immagine del gestore, non si rifletteva nello specchio. Era come se fosse trasparente.
Ripeté per tre volte quel controllo, e questo gli servì solo a notare che i clienti nel locale non erano del tutto uguali a quelli riflessi nello specchio.
I loro sguardi, i loro volti, perfino le loro azioni non erano le stesse.
Anche il locale raffigurato sul vetro aveva poco in comune col posto dove si trovava lui.
La Voglia, nello specchio, era avvolta da una coltre di fumo. Sulle prime pensò che lo specchio fosse sporco. Ma dopo pochi istanti notò che i clienti ivi riflessi, stavano proprio fumando!
Tutto ciò era disarmante. Fece per ordinare un whisky, ma si ricordò che doveva guidare.
Nell’istante in cui lo pensò, si vide riflesso con un bicchiere di whisky in mano. Nell’altra teneva una sigaretta accesa. Eppure non stava bevendo e non stava nemmeno fumando. L’aveva solo desiderato. Il gestore lo fissava, sornione, in disparte, con uno sguardo irriverente. Qualcun altro si accorse del suo stupore.
Un tizio dall’aspetto losco nello specchio quanto nella realtà, con codino cotonato e barba incolta, se ne stava a due passi da lui, sfogliando una rivista di Yoga fai da te. Lo fissò, si avvicinò e gli disse:
- Prima volta qui, eh? – Ridendo, si scambiò uno sguardo ammiccante col gestore, girò i tacchi e sparì.
L’uomo nello specchio col whisky in mano, si fece una bella sorsata e si allargò il collo della camicia, togliendosi la cravatta.
Mentre osservava il suo alter ego con malcelato terrore, un altro tizio con occhiali spessi, faccia da avvocato, e sguardo ambiguo, gli mise la mano sulla spalla e gli sussurrò:
- Tranquillo, ti ci abituerai.
- Abituarsi…- fece lui stordito additando lo specchio, - ma è tutto diverso …il locale è diverso… la Voglia è…
- Stereo. – Replicò l’altro compiendo un cerchio ampio con la mano aperta. - Anche in un impianto stereo la musica proviene da punti diversi. Ma è sempre la stessa musica...no?
E anche lui sparì.
Per distogliere il pensiero da quello specchio e da quei due personaggi, iniziò a guardarsi in giro.
Sentiva il bisogno di stare nella realtà. Il locale tuttavia era tutt’altro che rilassante. Quadri dipinti con rabbia, per lasciare il segno, stavano lì a fissarlo. Ebbe l’impressione che uno di questi addirittura volesse ingoiarlo. Tinte forti, immagini che trasportavano lo spettatore altrove.
Anche la musica. Suadente e ridondante, penetrava nell’ego già provato e stordito da quelle visioni, minando la volontà degli ascoltatori.
Tutto lo attirava di quel luogo, e al tempo stesso lo inquietava.
Tra le due, la paura prese il sopravvento e si alzò.
Una figura di donna gli si presentò di fronte. Con un sorriso lo stese. Si spostò una ciocca di capelli biondi e socchiuse le labbra.
- Te ne vai di già? – Disse con voce roca. Lo sfiorò con una mano sul collo e senza fermarsi, si allontanò..
Rimase colpito al punto da seguirla con lo sguardo languido, e la mandibola a penzoloni . Poi si voltò e si guardò nello specchio per non fissarla troppo insistentemente.
Ma nello specchio lei non si stava affatto allontanando. Se ne stava lì, a parlare col suo alter ego, che si dava un gran d’affare per fare il piacente. E lei sembrava apprezzare.
Sin troppo. I due si stavano scambiando sensazioni forti. Noncuranti degli sguardi altrui. Lui si sentiva imbarazzato, forse perché in fondo si trattava pur sempre della sua immagine, anche se riflessa. Eppure una parte di lui era morbosamente lusingata nel vedersi avvinghiato a quella bionda che non avrebbe neanche lontanamente pensato di poter possedere così, davanti a tutti.
Nel mentre desiderava ardentemente per la sua controparte un lieto fine, li vide allontanarsi assieme attraverso il locale ed entrare con disinvoltura nella porta del bagno, dove si trattennero a lungo.
Quando la sua libido si spense, iniziò a rimuginare sull’accaduto. Inutile nascondere che la voglia di andare in bagno con la bionda era venuta anche a lui, nell’istante in cui lei lo sfiorò in quel modo.
Ma non l’avrebbe mai fatto, il pensiero di sua moglie lo avrebbe fermato. Non fermò invece i suoi pensieri. Era come se fossero stati proiettati in quel maxischermo che aveva di fronte. Tutto sembrava assurdo. Ora anche lui al pari del gestore, non appariva riflesso nello specchio. E adesso capiva anche perché.
Era certo di aver visto abbastanza e quindi decise di saldare i conti con quel posto. Si presentò al gestore e disse:
- Le pago la Lucifer.
Il gestore fece un ghigno storto, mentre alle spalle del cliente si levò una grassa risata corale che era tutta per lui.
- E il whisky e la bionda chi li paga? – La voce era pietrificante. Una di quelle che scavano dentro fino all’anima. Sia il tono che lo sguardo parevano fatti per mettere a disagio. Con un filo di voce per quel inatteso e non voluto momento di protagonismo il cliente replicò.
- Ma io ho preso solo una Lucifer !
Un motociclista in piedi dietro di lui, riconoscibile per l’odore che emanavano i suoi capi in pelle laceri e consunti, appariva riflesso nello specchio addirittura in sella ad una Harley Davidson, appoggiata al bancone del locale. D’un tratto con la bocca mezza piena, allargò le braccia e sbottò:
- Ci risiamo. Ecco un altro che pensa di venire qui e togliersi la voglia senza dare niente in cambio.
Il cliente era perplesso e smarrito:
- Ma qua… quale voglia?
Un altro cliente, stizzito dai lamenti del nuovo venuto, concluse categorico.
- Suvvia lo sai benissimo, l’hanno vista tutti la bionda! – Il resto del pubblico, variamente assortito, inveiva sul povero cliente che non capiva cosa volessero da lui.
Nello specchio intanto era appena tornato dal bagno il suo alter ego, e si era buttato giù l’ultima sorsata di whisky, con un’aria distesa e compiaciuta.
- Ma io non ho fatto niente! L’ho solo desiderato! – Urlava, guardandosi l’uomo al bancone.
Il centauro, puntando il dito sbottò: - Bella scoperta! Credi che io sarei qui se avessi i soldi per comprarmi una Harley come quella?!
Il motociclista sulla Harley, con un panino a conchiglia in mano, scavallò dalla moto e si fece sotto. Ma il cliente riflesso nello specchio, non era mansueto al pari di quello che stava cercando di pagare il conto e svignarsela. E quindi, pensò bene di spalmare sulla testa pelata del centauro, quel che rimaneva della conchiglia che teneva in mano. Il centauro divenne verde in viso, un po’ per colpa anche della salsa tartara.
La rissa che scoppiò nello specchio, coinvolse metà dei clienti ivi riflessi, sfasciando una buona parte del locale virtuale, e portando il cliente a due passi dal trionfo. Ma essendo uno contro tutti, dovette rassegnarsi.
Nel frattempo alla cassa, il cliente incravattato, prima che gli eventi degenerassero anche lì, decise di concludere.
- Allora il totale quant’è?
Lisciandosi il codino con una mano, il gestore indicò platealmente i danni al locale proiettato dietro le sue spalle, quindi ritoccò il conto e lo sottopose al cliente, che esplose:
- Ma voi siete tutti matti ! Dove pensate che vada a prenderla una cifra del genere? E per cosa poi? Ho preso solo una Lucifer !
Il gestore continuava a guardare lo specchio, come pure i clienti.
E lui ne approfittò. Infilò la porta, e fuggì fuori mentre alle sue spalle, nello specchio la sua immagine se ne stava braccata tra le grinfie di un nerboruto che non emetteva un suono, e pareva pure sordo alle urla del costritto che si sbracciava ed urlava improperi alla volta del suo simile che se la stava svignando. Anche lui sembrava non volesse rimanere lì dentro. Ma nessuno poteva farci niente.
Non gli sembrava neanche vero di essere uscito da quel posto.
Decise di salire in macchina e andarsene il più lontano possibile.
Ma dove? Col volante in mano, si rese conto che non aveva voglia di andarsene da nessuna parte.
Nemmeno di tornare a casa da sua moglie. Neanche di guidare aveva voglia. Si sentiva vuoto, privo di desideri. Era come se li avesse lasciati tutti in quel posto che li riassumeva in una parola.
Nel mentre si stava chiedendo se era colpa di qualcosa che aveva bevuto nel locale, si ricordò delle uniche parole urlategli dietro dal gestore mentre infilava la porta.
- Ce la terremo … come pegno…!
Non riuscì a sentire tutte le parole ma non vi diede peso.
Tutto fu così assurdo quella sera, ma finalmente era finita.
Fermò la macchina vicino alla stazione dei treni. Quasi senza pensarci, prese in mano lo specchietto retrovisore e vi mise dentro il naso, per rivedersi nella sua banale quanto agognata normalità.
Niente!
La faccia non c’era.
Lui non c’era. Eppure si toccava, si sentiva ma nello specchio non vi era traccia di lui.
Scese dall’auto e si cercò nei vetri appannati. Ma anche lì non vi erano né la sua faccia, né lui.
Quella notte, passò veloce. Cercò la sua immagine ovunque. Nei vetri delle case, sulle maniglie, nelle pozzanghere, ogni cosa che riflettesse un barlume di luce.
La mattina dopo ritrovarono un’auto parcheggiata alla Stazione con la portiera aperta, ed un vestito sul sedile.
Nel paese cominciò subito a girare una strana storia, sul forestiero proprietario dell’auto trovata presso la stazione. E guarda caso, anche questa volta sembrava che il tizio in questione fosse stato visto l’ultima volta dentro al solito locale, dal quale usciva una leggenda alla settimana.
Il nome era sempre lo stesso, e le storie così tante che oramai non ci faceva più caso nessuno.

domenica 14 settembre 2008

Ghost Writer

Una pagina bianca.
La penombra del lume di candela toglieva a quel foglio bianco il suo naturale candore, conferendogli al tempo stesso un tepore romantico, ma non per questo meno assillante.
Se ne stava lì, a fissarlo, con la penna d’oca in mano, intrisa di inchiostro ormai rinsecchito dal tempo. La sua mano si librava a mezz’aria, reggendo quello strumento un tempo appartenuto ad un volatile, ed ora riciclato per eternare un pensiero su un foglio di carta, con l’ausilio di un inchiostro nero indelebile.
Ma nessun pensiero era scritto. E neppure una sola parola.
Il foglio continuava a fissarlo, vuoto ed irriverente.
Lo scrittore, si sentiva come quel foglio, dal quale non voleva emergere più nulla.
Il suo desiderio di vedere apparire delle parole, si rifletteva sulla carta ingiallita dal tempo e dalla luce fioca. Ma nulla accadeva da sé.
Poteva essere un foglio così assillante? Se ne stava immobile sullo scrittoio, vacuo ed inutile. Quella vista lo tediava giorno dopo giorno, sino al tormento.
Un tempo su quella carta, scorreva un fiume nero. Parole intrecciate l’una all’altra, a comporre un nido di storie, dal quale traboccavano idee, pronte ad essere immortalate l’una di seguito all’altra.
Ora, su quel deserto giallastro, non vi era più vita, al pari che dentro di lui.
Da alcuni mesi, era solo il tempo a scorrere invece dell’inchiostro, trasportandolo sempre più verso il delirio e la follia.
Un microcosmo composto da un foglio, una penna e se stesso, dentro il quale si sentiva imprigionato.
Avrebbe dato anche la vita per trovare una parola in quel universo silenzioso.
Istante dopo istante, l’ansia si alimentava di se stessa.
Se qualcuno avesse potuto sentirlo, se le parole un tempo sue alleate ed amiche, tornassero ad aiutarlo in questo momento terribile.
Perché lo avevano abbandonato anche loro? Se solo potessero…
Il sonno lo rapì. Ma nulla mutò nella stanza, dove già regnava l’assoluto silenzio.
Tlic.
Un rumore lo tolse da quel sonno leggero.
Una goccia nera si era mossa dal pennino ed era scivolata in basso.
Precipitando sul foglio, si spalmò tutto intorno, in un cerchio. Tremava sotto la luce del lume. Quella goccia che avrebbe dovuto essere inanimata, fremeva e si contorceva.
Si allungava. Stava prendendo forma da sé.
Senza che alcuno l’aiutasse, quella timida creatura si tramutò in un insieme di lettere, e si fissò sulla superficie vuota, ancora illuminata dalla tenue luce del lume.
G O C C I A.
Questa parola si era insediata su quel foglio, nell’istante in cui una goccia d'inchiostro, si staccò dal pennino.
Eppure lui era sicuro di non averla scritta. Assolutamente certo.
La vedeva, la sfiorava, già del tutto asciutta ed assorbita dalla carta.
Non stava sognando. Era la prima parola dopo molto tempo.
Felice ma al tempo stesso stupito non riusciva a connettere.
Con un leggero sorriso sulle labbra, appoggiò la penna d’oca sul foglio e sollevò lo sguardo.
Quando lo riabbassò, si portò le mani agli occhi e li massaggiò ferocemente, nel tentativo di far sparire le altre parole che stavano lì ad attenderlo.
P E N N A D' O C A.
Assurdo.
Il pennino era sparito. Al suo posto sul foglio erano apparse dal nulla queste tre parole. Ben scritte, anche se con una calligrafia che non era certo la sua.
Credeva che la peggior nemica di uno scrittore fosse l'ansia, ma quella visione lo turbò ben al di là delle sue paure.
La sorpresa lo lasciò immobile.
Destatosi dal torpore, prese in mano quel foglio. Lo guardò in controluce.
Non aveva niente di diverso da prima, tranne quelle parole apparse dal nulla. Lo ripose, basito, con una sorta di rispetto, forse scaturito dal timore dell’ignoto.
Nel momento in cui tolse la mano dal foglio, una nuova scoperta lo lasciò senza fiato.
In un angolo, lo stesso che aveva usato per impugnarlo, ora stava scritta una parola di traverso che andava a spegnersi proprio nel vertice dell’angolo in questione.
P O L L I C E.
Esattamente nel punto dove aveva posto il suo dito, ora stava scritto il nome della cosa che l’aveva toccato.
Questo ragionamento lo colse impreparato.
Ripensò a quanto accaduto sino ad allora.
La goccia di inchiostro caduta sul foglio. La penna d’oca. Ed ora il pollice.
Era delirante cercare un nesso logico in quel contesto di assurdità. Eppure, se mai ce ne fosse stato uno, appariva piuttosto evidente.
Il contatto.
Nel momento in cui rimuginava su questa scoperta, e cercava dentro di se un motivo per tutto questo, portò istintivamente di nuovo il suo pollice sullo stesso punto e quasi a voler cercare una conferma dell’assurdo, girò il foglio e, trasalì.
Nel retro dello stesso, non poteva esserci che una parola a rigor di logica, scritta nell’angolo in basso a sinistra.
I N D I C E.
E così infatti era scritto.
Immortalate nel nero indelebile, queste parole stavano lì, a riprova di quella situazione surreale.
Ma cosa importava in fondo della realtà? Ora, dopo giorni vacui e disperati, le parole erano tornate a popolare quel deserto bianco.
La bramosia lo spinse a continuare, più forte del dubbio e della paura dell’ignoto.
Gettò alla rinfusa su quel foglio fertile e misterioso gli oggetti che stavano a portata di mano. Il suo respiro si fece affannato, mentre il cuore gli scuoteva il petto.
Molte parole si aggiunsero alle precedenti, sparpagliate su quel foglio, con i nomi degli oggetti che vi aveva posto sopra.
L’emozione era grande.
Ma non abbastanza da soddisfarlo. Sentiva che poteva osare di più.
La mano tremante si pose su quel magico strumento che produceva parole invece che suoni.
Si trattava in fondo di capire come suonarlo per produrre qualcosa di più che semplici note nere poste su di esso alla rinfusa. In fondo, lui sentiva che lo strumento avrebbe potuto suonare anche una sinfonia, completa, unica, sorprendente.
Doveva solo scoprire il suo linguaggio, per raggiungere la meta.
Premette il palmo della mano aperta, su quel foglio, quasi a voler infondere su di esso una benedizione divina.
Non sapeva tuttavia ancora se si trattasse del divino o del suo antagonista.
Ma la cosa, al momento per lui era irrilevante. Gli interessava il risultato, e per questo era pronto a donare tutto se stesso.
Le parole iniziarono a scorrergli dentro, mentre gli occhi chiusi gli impedivano di vedere cosa accadeva la fuori.
Molte idee si affollavano nella sua mente, come strumenti e suoni alla ricerca di un’aria comune.
Non volle ancora aprire gli occhi, eppure sapeva che qualcosa stava accadendo.
Una storia sgorgava dal profondo del suo ego più recondito. La storia che forse non aveva mai osato nemmeno pensare e che ora appariva chiara e vivida nella sua mente.
Nell’istante in cui riaprì gli occhi, vide una foglio impregnato di parole sino all’orlo. Era un racconto, anzi, il prologo al romanzo che da sempre avrebbe voluto scrivere ma che mai era riuscito nemmeno ad iniziare.
La sua fantasia galoppava, mentre un nuovo foglio bianco sostituiva il precedente che veniva riposto a lato, per essere il primo di molti suoi pari. Assieme, avrebbero formato l’opera che lui, al pari di altri autori, avrebbero identificato come il "romanzo della vita".
Una frase questa che sarebbe meglio non pronunciare mai prima del tempo.
Dalla sua mano sgorgavano fiumi di parole che riempivano pagine e pagine, mentre la sua mente sognava ora, ad occhi aperti, quella storia che portava con se da sempre.
Il tempo passava. Minuti, ore, forse giorni. Non lo sapeva più.
Egli continuava e continuava senza fermarsi, sospinto da un desiderio irrefrenabile.
Non dormiva da giorni. Non mangiava. E neppure si dissetava. A malapena si ricordava di respirare.
La bramosia di vedere la fine di quello che lo assillava da sempre, era più forte di ogni cosa.
Sentiva che la fine era vicina. E non si trattava solo della fine del romanzo.
Le forze lo abbandonavano, ma ancora poche pagine rimanevano da scrivere e tutto sarebbe stato compiuto.
Un mattino, mentre la tenue luce del lume lasciava il posto al chiarore dell’alba, il manoscritto era uscito completamente dalla mano distesa e sfinita sul tavolo dello scrittoio.
Una sensazione di appagamento lo pervase portandolo a realizzare in quel istante che tutto era compiuto.
Il suo destino, con quel romanzo giungeva al termine, forse prima del tempo stabilito.
La bramosia, l’ansia di voler vomitare tutta quell’opera in un tempo così breve l’avevano consumato, esaurendo con essa la vita che gli rimaneva da vivere.
Ebbe l’impressione che se non l’avesse voluto così avidamente, la sua vita sarebbe stata molto più lunga. Tuttavia, l’opera di una vita era scritta, il suo desiderio esaudito. Ma il tempo che gli spettava ancora di vivere era stato regalato a chi questo suo desiderio aveva esaudito.
Ancora non sapeva di chi si trattasse. Forse il maligno si era impossessato di lui in quel momento di debolezza, forse il divino aveva deciso di esaudire un suo desiderio prima che accadesse l’irreparabile, ed una vita venisse spesa per niente.
Ebbe la sensazione, nell’istante in cui si lasciò andare, che presto avrebbe saputo chi doveva ringraziare per tutto questo.
Il manoscritto ora se ne stava lì, ben sistemato e pronto ad essere letto, da chi avesse scoperto per primo quel uomo, che giaceva inerte su una sedia, con un sorriso spento a disegnargli il viso. Un uomo che si diceva scrittore... e che grazie a quell’opera lo divenne... postumo.

sabato 7 giugno 2008

Viagro e Viagra

Caro Direttore,
siamo due fratellini di otto anni, Viagro e Viagra. La nostra giovane mamma ci ha chiamato così perché se quella sera Papà non avesse preso per la prima volta nella sua vita la caramella blu, noi non saremmo mai venuti al mondo, o almeno così ci ha spiegato lei.
Ma avendo ormai 75 anni, fu anche l’ultima volta che il babbo la prese, infatti la mattina dopo non si risvegliò più. La mamma ci ha sempre detto che deve essersene andato contento, perché aveva ancora il sorriso sulle labbra.
Nove mesi dopo siamo arrivati noi, e quindi, come dice sempre la mamma, è stato uno scambio vantaggioso, perché anche se uno se ne è andato, ne sono arrivati due!
Inutile dire che non abbiamo mai conosciuto Papà, ma gli abbiamo sempre voluto tanto bene lo stesso.
Oggi, caro direttore, le scriviamo questa lettera perché vogliamo fare qualcosa per lui.
Abbiamo visto che nella piazza del paese dopo la statua dell’Alpino, per ricordare chi ha dato la vita per salvare l’Italia, ci hanno messo anche il monumento per gli ubriachi, cioè la macchina sfracellata che ricorda quelli che quando bevono non sanno più guidare dritto.
Quindi abbiamo pensato, che se si può mettere una macchina scassata in mezzo alla piazza per ricordare chi ha dato la vita per l’alcool, allora si potrà anche mettere un monumento per nostro padre che ha dato la sua vita per la nostra.
Per venirle incontro, le mandiamo il disegno del monumento che abbiamo pensato, e cioè una grande caramella in marmo blu alta 5 metri, con in basso la scritta latina “Resurrecturis”. Questo perché essendo vicino alla chiesa suona proprio bene e anche perché la mamma dice che quella caramella fa resuscitare i morti.
Il nostro babbo però non è mica resuscitato. Che sia perché l’ha presa quando era ancora vivo?
Chi lo sa. Comunque anche il prete è d’accordo che la caramella fa resuscitare i morti, lo dice sempre quando viene a trovare la mamma.
Lui infatti, ne ha sempre una scatola in tasca e la mamma, che non è mai stata molto religiosa, dice che ultimamente ha ritrovato la fede!
Insomma direttore, non pensa anche lei che questa caramella meriti un monumento?
Se non ci crede e vuole provarne una anche lei, possiamo sempre mandargliene una di quelle del prete, tanto lui ha la scorta a casa.
Mi raccomando, ci aiuti pubblicando questa lettera che così al paese la leggono tutti, e chissà che da lassù anche il Papà non sia contento…

Viagro e Viagra

sabato 24 maggio 2008

La vista (Collana "I 5 sensi")

Il sole si spense per lei molto presto. I suoi ricordi si erano fermati ad un mondo visto dal basso verso l’alto, in cui persone ed oggetti erano tutti più grandi di lei. Oggetti enormi, fedeli alleati dietro i quali nascondersi facilmente, persone come giganti che la portavano tra le loro braccia.
Ora, pur non vedendoli, percepiva le loro voci venire da un’altezza pari alla sua.
Era cresciuta. Ma ancora oggi quando voleva tornare bambina, e rifugiarsi nei suoi ricordi, si accucciava a terra ed amava ascoltare e percepire di nuovo tutto provenire dall’alto, come allora. Da questa prospettiva, le sembrava di ritornare a vedere la luce illuminare di nuovo quel mondo che si era spento anni addietro. Era come tornare bambina e vedere di nuovo, anche ad occhi chiusi.
Quando si rialzava il mondo tornava a trasformarsi in una giungla di suoni, odori, e percezioni.
La città era un marasma di sensazioni fuori da ogni controllo. Il rumore di fondo ed il ritmo della metropoli non le davano il tempo di realizzare cosa le accadeva attorno. Tutto questo inevitabilmente le provocava un disagio ed un’ insicurezza che spesso scadeva nella più arcaica e primordiale delle sensazioni umane, da sempre sua compagna di viaggio. La paura.
Quando il suo mondo si era spento, fu come se l’avessero rinchiusa in una stanza buia, la stessa in cui era finita varie volte in collegio da piccola. La dentro, nell’oscurità, fantasmi perversi venivano a trovarla, ma quando lo raccontava a chi le voleva bene, nessuno le credeva.
Un giorno il collegio finì. Ma di notte, dormiva sempre con una fievole luce accesa, per fugare ogni paura.
Dopo l’operazione non ci fu più nessuna luce ad illuminare le sue notti. Le notti si erano unite una all’altra, formandone una sola, infinita.
In quella lunga notte, non poté più sfuggire ai suoi fantasmi, e dovette affrontarli, col coraggio che può avere una bambina. Non potendo sconfiggerli, imparò a conviverci sino a farli scomparire mano a mano che la notte diveniva sua amica, giorno dopo giorno, anche se la parola giorno per lei non significava più nulla.

Da qualche tempo le cose stavano cambiando. C’era molto più interesse attorno a lei, gli altri erano diventati più gentili, cortesi, soprattutto gli uomini. Anche quelli che anni addietro erano solo dei suoni lontani, dei saluti che sparivano diluendosi nella distanza.
La lontananza di una voce e la mancanza di un contatto erano sinonimo di solitudine.
Avrebbe voluto vivere in un mondo di abbracci, caldi e forti, che la sapessero portare come quando era bambina, senza farle temere più nulla di quel buio eterno, sempre intriso di sorprese latenti. Ma ora era diverso.
Gli uomini si avvicinavano a lei con calore. Interesse.
Non era però lo stesso affetto di una volta. Erano abbracci prolungati, ispettivi, che entravano in quel recinto che si era costruita. Un recinto fatto dallo spessore di una distanza, che le dava un’emozione diversa al variare di una manciata di centimetri.
I centimetri si azzerarono. Le emozioni che provava con quegli abbracci maschili, erano nuove, diverse, coinvolgenti. Lei, vi si abbandonava, rapita e ricolma di un piacere neofita.
Nuove emozioni si affacciavano alla sua mente e prendevano possesso del corpo. Erano difficili da dominare, spesso incontrollabili. Molti dei suoi ospiti se n’erano accorti. E tornavano sovente a trovarla. Altri, le dicevano che era la migliore.
Non sapeva bene cosa intendessero, ma per lei ora tutto era diventato naturale. Le bastava assecondare quelle sensazioni forti, e cavalcarle lasciandosi trasportare. Era come correre, volare, libera e spensierata.
Era felice di avere tutti questi nuovi affetti. La solitudine era una paura lontana. Nuove voci passavano a trovarla ogni giorno, voci di uomini sempre più maturi. Ognuno la trasportava a modo suo, facendole scoprire sapori, odori sempre diversi.
Gli odori furono la vera novità.
Con alcuni di questi la sua mente perdeva il controllo del corpo...

Un giorno, un odore fu diverso da tutti gli altri, una voce rassicurante più di quella del padre, e delle mani così calde che avrebbe voluto sostituirle alle sue, per accarezzarsi.
Queste tre cose appartenevano tutte allo stesso uomo.
Da quel giorno quelle sensazioni che prima provava per chiunque, iniziarono a manifestarsi solo per lui.
Egli divenne il suo uomo.
Ma con lui la sua vita non cambiò molto. Egli voleva che continuasse a vedere tutti i suoi amici esattamente come faceva prima. Non era geloso, anzi gliene presentò degli altri.
Le disse che grazie a lei, ora poteva smettere di lavorare, così avrebbe avuto più tempo per starle vicino. Lei non capì, ma ne fu felice.
Per lei in fondo, quegli abbracci erano una forma di dialogo assolutamente naturale.
E fu così che cominciò a girare il mondo, incontrando sempre nuove persone, uomini, donne, celebrità. Tutti le dicevano che i suoi abbracci erano unici, forse proprio perché non poteva vedere e quindi aveva sviluppato altri sensi.
Il suo ragazzo era d’accordo con loro, e sempre vicino a lei.
Ma alla sera, lui la voleva solo per sé, e per lei questo rimase per sempre l’abbraccio più bello…

domenica 20 aprile 2008

Yo Yo

Su una panchina del parco se ne sta seduto un tipo spento di nome Frank. Sta rimuginando su una cosa importante: la sua data di scadenza.
- Signore mi scusi, – dice Frank ad un uomo che sta arrivando a prendere suo figlio, – come ci si sente ad essere padre?
Il tizio lo guarda stranito.
- Quante volte ti devo dire di non parlare con gli sconosciuti?! – Il padre, un tipo manesco, redarguisce il figlioletto a modo suo, mentre questi nega di aver mai visto il povero Frank prima d’ora e giura che neppure si era accorto che ci fosse.
Infine, pigliato il figlioletto per un braccio, se ne va verso il parcheggio lanciando sguardi e strali all’insegna dell’incolpevole Frank, e lasciandosi alle spalle una scia di improperi rivolti alla madre, colpevole di aver abbandonato suo figlio, almeno a suo dire.
Frank non ci fece caso. Stava passando il peggior momento immaginabile. La vita gli stava sfuggendo di mano ed aveva solo ventanni.
Ora si ritrovava lì con uno Yo Yo in mano, dimenticato dal bimbo che era stato a sua volta dimenticato dalla madre.
Un pensiero tra i tanti, lo stava angosciando. Non diventerà mai padre.
La sua vita terminerà molto presto e lui lo ha saputo solo la mattina stessa.
Ma in fondo che ci voleva per diventare padre? Bastava far innamorare una ragazzina, metterla incinta, e raccontarle che era in partenza per un viaggio senza ritorno, ma prima di partire, aveva voluto lasciarsi alle spalle un ricordino, giusto per far vedere ai posteri che era passato di lì.
Bella idea. Ma troppo lunga da applicare. Il tempo stringe. E la data di scadenza si avvicina.
Doveva elaborare un'altra soluzione. In fondo cosa gli serviva per procreare? L’amore? Non era necessario. Il tempo? Si, ma non più di quello per una scopata. E la terza cosa, fondamentale, una donna da mettere incinta.
- Scusi ha visto mio figlio? Andiamo su, lo Yo Yo che tiene in mano è suo, quindi non faccia il finto tonto.
Bene. La donna era arrivata. Puntuale, quasi fosse un dono per esaudire un suo desiderio.
- Venga signora, si sieda.
- Non ho tempo. A quest’ora mio marito sarà in macchina ad aspettarmi, ed anche parecchio incazzato. Dove si è cacciato mio figlio? Era qui sino a cinque minuti fa!
Frank pensa veloce. Fa un ghigno strano. Infine, cambia tono di voce.
- Se non si siede qui, signora, non lo rivedrà mai più.
La madre, con le guance color del sole al crepuscolo, cominciò a diventare chiara come l’alba, quasi avesse vissuto tutta una notte in un istante.
Si sedette. Mansueta.
- Vede signora…
Facendo ampio ricorso alla fantasia, Frank iniziò un discorso, dove si parlava di affari, denaro, organizzazioni internazionali, per poi finire il monologo raccontando di alcuni strani tizi che frequentavano quel parco, sempre alla ricerca di fiori appena sbocciati.
- Ma con i soldi si può sempre sistemare tutto, - concluse Frank.
La madre, con un filo di voce, rispose che aveva solo mutui a tasso variabile.. e figli da sfamare.
- Lei cosa sarebbe disposta a fare per suo figlio?
Uno sguardo eloquente, fu la risposta che comprendeva ogni possibilità.
E fu così che Frank, brandendo il cellulare come fosse il filo che teneva in vita suo figlio, si fece accompagnare dalla signora nel bagno del parco, dove lei si prodigò al massimo per meritarsi la vita di suo figlio.
Frank non sapeva se questo sarebbe bastato per lasciare un discendente, ma era soddisfatto lo stesso, e quindi stette ai patti. Si recò con la signora al parcheggio, dove da più di mezzora padre e figlio aspettavano la madre sconsiderata che aveva lasciato per 5 minuti il bimbo da solo nel parco.
La madre si precipitò su suo figlio, abbracciandolo. Il padre si precipitò sulla madre, ma non proprio per lo stesso motivo.
Frank, senza alcuna fretta, si gustò la scena in disparte e almeno per qualche momento dimenticò la sua data di scadenza, tenendo la mente occupata a pensare come a volte, mentre una vita si sta spegnendo, un’altra può nascere all'interno di un vespasiano…

giovedì 10 aprile 2008

One Shot

Un baby Jack se ne sta li da solo sul tavolo. Sua madre l’ha abbandonato da poco. E’ stata seccata completamente. Sull’etichetta aveva scritto Jack Daniel’s. Per questo i bimbi portano il suo nome.
Un uomo solo come il suo ultimo bicchiere, se ne stava seduto al bancone del bar, aspettando qualcuno.
Uno qualunque andava benissimo.
“Salve mi chiamo Jack, come il mio whisky.” Disse Jack al primo cliente che si appostò al bancone accanto a lui.
“Sono appena stato lasciato dalla ragazza.”
Il cliente gli chiese se beveva per dimenticare… ma Jack rispose che stava festeggiando. Ed attaccò il disco con la storia.

Quando Jack voleva farsi lasciare da una fidanzata che oramai gli stava troppo stretta, aveva una tecnica infallibile.
Un colpo solo.
L’amore in fondo era per lui una pratica terribilmente monotona e ripetitiva, al limite del ridicolo.
“Basti pensare a due cani per strada…” diceva Jack, “solitamente fanno sorridere un po’ tutti mentre si amano. Chissà se ai loro occhi noi umani saremo tanto diversi…”
Ed a quel punto, Jack amava spiegare la sua teoria dell’evoluzione della specie.
“Se una volta camminavamo a 4 zampe come loro, e poi siamo passati a due, deve esserci un miglioramento anche da un punto di vista amatoriale.” E con questo, Jack intendeva… “scopare”.
La sua fidanzata di turno lo ascoltava sempre un po’ smarrita. Almeno sino a quando non si passava all’esempio pratico. A quel punto era tutto molto più chiaro.
Senza bisogno di ripetizioni.
L’ultimo stadio dell’evoluzione dell’uomo coincideva, secondo Jack, nel raggiungimento della capacità di iniziare e concludere l’atto d’amore in un unico movimento.
“One shot”, diceva. “Come un bel bicchiere di whisky”.
“Solo le donne sorseggiano. I veri uomini se lo fanno tutto in un colpo.”
Questa analogia tra il whisky e le donne, era per Jack un nesso indissolubile.

“Ehi Jack, mi sono sempre piaciuti i veri uomini”, disse il cliente seduto al bancone con lui. Era un cliente donna. E si era sorbita questa storia originale raccontata da un tipo un po’speciale.
“Quindi Jack,” disse lei infiammando una sigaretta, tenuta tra due languide labbra rosse, “questa è la tua serata fortunata. Se non ti piace sorseggiare troppo, come dici, e sei un vero uomo… sappi che io non ho niente in contrario. Anzi, ti posso fare anche il trenta per cento di sconto...”

martedì 1 aprile 2008

Sushi d’Aprile

Primo Aprile. Il mio compleanno. Quella rintronata di mia moglie si sarà dimenticata anche stavolta. Che donna. E’ già tanto che non la trovi di nuovo a letto con un altro. Del resto non sarebbe la prima volta…
Se l’avessi trovata a letto con una donna, mi sarei sorpreso di meno. L’avrà fatto per farmi un dispetto. Baldracca. Se ci ripenso…ma perché proprio un negro!?
Come diceva un mio vecchio amico postino, è sempre meglio suonare il campanello due volte prima di entrare, ci si risparmia una sorpresa in due.
E’ passato molto tempo da quella volta, ma il dubbio di trovar qualcun’altro non ti abbandona mai, è come un’ossessione.
Din Don. Din Don.
Niente. Eppure la luce è accesa.
Ecco. Ci risiamo.
Meglio suonare un altro paio di colpi come suggeriva il postino…
- Permesso, c’è nessuno? Fossi in voi non uscirei dalla finestra… siamo al decimo piano!
Silenzio.
Uno strano odore di pesce fresco mi giunge alle narici.
La porta della cucina fa fatica ad aprirsi. E’ come se ci fosse qualcosa dietro.
Cristo Santo!
C’è pesce fresco per terra, ovunque.
Il tavolino in vetro è completamente sfasciato. .. ma perchè tutto questo pesce? Non sarà mica… Una cosa strana spunta da sotto quel casino…ma è…è un piede!?
Mi viene da vomitare. Non so se è per l’odore di pesce o per quello che sto per scoprire.
Attaccato al piede, per terra, scorgo il corpo di mia moglie. Completamente nudo.
La mia attenzione cade sul fatto che è totalmente ricoperta di pezzettini di pesce, e cosparsa di una sorta di gelatina. Mai vista una cosa del genere.
Inutile dire che sulle prime ho pensato ad un pesce d’aprile. E’ l’ingrato destino di quelli nati in questo giorno. Metà dei regali di compleanno che ho ricevuto in vita mia, erano pesci d’aprile. E quasi tutti di mia moglie.
Ma stavolta è diverso. C’è anche del sangue rappreso, per terra. Lei, ha dei pezzi di vetro piantati qua e la e dei tagli, forse fatti dal vetro del tavolo in frantumi… o forse no. Non so più cosa pensare. Non so neanche se è viva o morta. Ho paura a controllare. E se fosse morta? D’un tratto mi sovviene il pensiero che possa esserci qualcun altro in casa. Nascosto. Ma chi può averle fatto una cosa del genere e poi rimanere qui?
Il cuore mi batte all’impazzata. Non riesco a pensare.
La porta tuttavia era chiusa a chiave dall’interno, come sempre. E dalle finestre non si esce al decimo piano.
Prendo un coltellaccio dalla dispensa. Il mio primo desiderio è scoprire dove si può essere nascosto.
Ma perché c’è pesce fresco dappertutto?! Sembra… anzi, è proprio del sushi.
Sul balcone non c’è nessuno. Passiamo agli armadi.
Deve trattarsi di un fottuto giapponese stavolta. Del resto dopo il negro, è naturale che abbia voluto provare anche il giallo, quella brutta... Deve essere così. Ma forse qualcosa non è andato per il verso giusto. Forse è un maniaco!
In camera c’è profumo di incenso.
Candele. Dappertutto. Non ci sono mai state candele in casa mia. E se fosse un rito satanico? Non pensiamo a scemenze adesso. Devo calmarmi.
Nel mentre vengo rapito dal pensiero di come passi le giornate mia moglie in mia assenza, noto che un armadio è un po’ aperto.
Non so cosa farò se lo trovo li dentro. Voglio dargli una possibilità.
- Avanti muso giallo, se non esci di li subito, mi faccio un bel piatto di Sushi con le tue palle!
Nessuna risposta.
Prendo un po’ di coraggio. Apro.
Ancora candele. Tante candele.
Non ci capisco più niente.
In casa non c’è nessun altro. Ho guardato dappertutto.
Ma allora che diavolo è successo?
In cucina ormai l’odore del sangue ha superato quello del pesce. Ed il sangue è quello di mia moglie. Ce n’è sempre di più per terra. E’ impossibile avvicinarsi a lei senza calpestarlo. Il vetro deve averle tagliato una vena.
Cerco di sollevarle la testa per capire se è viva. D’un tratto mi cade l’occhio su un libro che spunta da sotto uno strato di Sushi sul pavimento.
“Mille modi per sorprendere tuo marito e riaccendere il desiderio.”
Mio Dio.
C’è un segnalibro su una pagina.
“Sushi party per lui”. A fondo pagina c’è una foto a colori raffigurante una donna nuda distesa su una tavola imbandita, e completamente ricoperta di sushi.
“Perfetto per feste di compleanno, anniversari, occasioni speciali.”
Roba da non crederci. Sapevo di aver sposato una gran bella donna, ed altrettanto idiota, ma non pensavo arrivasse a tanto.
Il tavolo di vetro deve aver ceduto sotto il suo peso, quando ci si è distesa sopra. E adesso se ne sta lì bianca cadaverica, con due bacchette di legno infilate nei capelli, acconciati alla giapponese.
D’un tratto la scuote un fremito. Apre gli occhi. Mi vede.
Un sorriso le increspa le guance. Sembra non accorgersi delle condizioni in cui sta. Con un filo di voce mi sussurra:
- Buon .. compleanno… caro…

Ricordo, che con le lacrime agli occhi e la voce strozzata, le risposi:
“Ma tra mille modi per sorprendermi e riaccendere il desiderio, perché hai scelto proprio il Sushi, che l’odore del pesce fresco mi fa vomitare?!”
Lei, mi guardò e con l’ultimo respiro, mi disse:
“Le candele…lui…”. Fine.

Ricordo d’aver letto e riletto quel libro attratto dalla curiosità di sapere a cosa servivano quelle dannate candele, o cosa mi volesse dire mia moglie prima di andarsene.
E chi era lui?
Nessuna traccia, nessuna idea. Nessuno mi crede.
Proprio così.
La cosa che più mi ossessiona, è che quando lo racconto in giro, tutti pensano ... che sia un pesce d’aprile…

domenica 23 marzo 2008

AAA Cercasi braccio destro

La solita vecchia storia. Quando vengono a sapere che sono appena uscito di galera, mi danno il ben servito, ma sempre col sorriso sulle labbra. Bastardi.
Come dovrei tirare avanti io secondo loro? Almeno in galera mi davano da campare per niente.
L’unica cosa che mancava era un po’ di libertà. Già, la libertà. Ma di fare cosa?
Sono senza euri. E qua fuori senza spendere, cosa si può fare?
Alla fine, concludo che almeno adesso sono libero... libero di non fare niente...
Interessante.
AAA Cercasi braccio destro.
Bel annuncio questo. Si da il caso che il braccio destro ce l’ho!
Il sinistro invece l’ho perso anni fa giocando a poker. Nel senso che quando hanno scoperto che avevo un asso nella manica, mi hanno segato via la manica col braccio dentro. Asso incluso. Questo è quello che succede a frequentare le cattive compagnie.
E meno male che ero il braccio destro del Boss, altrimenti…
Comunque, dato che il braccio destro l’ho già fatto, direi di avere il curriculum in regola per l’annuncio. Si parte.
E’ dura guidare e cambiare le marce con un braccio solo. C’è sempre un momento in cui lasci il volante a se stesso. E quando sei in curva, può essere un tantino pericoloso.
A volte penso di essere stato fortunato. Se perdevo il braccio destro, per cambiare le marce avrei dovuto trasferirmi in Inghilterra.
Che posto di merda! Mi passa la voglia di fare il colloquio.
Poi vedo una bella tacchinella bionda e cambio idea.
“Cercavo il boss”, dico. “Ho letto l’annuncio”.
Mumble mumble. La tacchinella prima pensa, poi parla. Ed è già qualcosa, essendo una donna.
“Sono io che cerco un braccio destro”. Dice.
Roba da non crederci. La tacchinella è il Boss. Il mondo sta cambiando.
“Beh, io il braccio destro ce l’ho.” Dico, e poi mi presento. “Piacere, sono Ace”.
“Ace”. Fa lei. “E l’asso dove ce l’hai ?” Un po’ scontata la tipa. Uno su due mi caga la stessa battuta. Ormai ho la replica preconfezionata.
“L’ho lasciato nell’altra manica”.
Dubito che l’abbia capita. “Di solito applaudono quasi tutti a questa battuta” le dico.
Lei, tira su il braccio sinistro, lo muove da sinistra verso destra, e con la bocca fa:
“Clap, clap, clap. ”
Sulle prime, penso che mi stia prendendo per il culo.
Poi la guardo meglio, e noto che mi sembra di vedermi allo specchio.
“Perché mi guardi così? Pensavi di essere l’unico?" Dice. "Per cosa pensi che abbia messo l’annuncio, cercasi braccio destro?”
Non lo so, rispondo.
“Perché non ce l’ho più, no?! Semplice. Tuttavia non pensavo che arrivasse così in fretta. E con attaccato un tizio per giunta.”
La tipa mi fa un po’ pena. Donna e per di più con un braccio solo, destino infame.
Non vorrei deluderla, ma io non potrei mai fare il braccio destro di una donna.
“Senti” mi dice, “vieni a fare un giro in macchina con me?”.
Ora è tutto più chiaro. La tipa di lavoro fa il tassista...

Da qualche mese mi ha ceduto il posto di guida. Lei è sempre al mio fianco.
Non immaginate neanche cosa voglia dire avere qualcuno che ti cambia le marce senza dover staccare la mano dal volante. Le prime volte dovevo urlare “cambio”! Ma poi la tipa si è fatta l’orecchio sul motore, e adesso siamo in perfetta sintonia. Talmente in sintonia, che i clienti si fanno anche un’ora di coda per farsi un giro sul nostro taxi. C’è perfino gente che si fa riportare al punto di partenza, solo per il gusto di farsi un giro con noi. Adesso non sono più tanto libero di non fare niente. Pazienza, almeno ho capito cosa voleva dire mia madre quando diceva che nella vita "bisogna darsi una mano a vicenda"…

domenica 27 gennaio 2008

Chi risica non rosica...

“Pazienti si nasce, dentisti si diventa.” Era il cartello sulla porta dello studio dentistico.
Tatiana era diventata una dentista, anche se le dicevano spesso che per essere una dentista, era molto paziente.
Ma un giorno le cose cambiarono.

Tutto era cominciato quella volta che un paziente si era innamorato di lei.
Come tutti gli innamorati si inventava ogni scusa per stare con la sua amata. E se lei avesse avuto una libreria, si sarebbe riempito la casa di libri, magari senza leggerne uno. Se invece fosse stata proprietaria di una pasticceria, probabilmente sarebbe solo ingrassato un bel po’di chili. Ma la sua amata faceva la dentista e quindi a rimetterci furono i suoi poveri denti.
“Chi non risica non rosica !” Si ripeteva sempre per farsi coraggio.
E nel giro di un mese si ritrovò con tutti i denti otturati. La dentista non ci stava capendo più niente.
Secondo lei i denti di quell’uomo erano sani, ma lui insisteva che gli facevano male e che gli passava il dolore solo dopo una bella trapanata, specie se fatta con le sue mani.
Presto i denti finirono per essere tutti trapanati e così il paziente dovette inventarsi qualcos’altro per vederla.
In breve, lamentando continui dolori, si fece sistemare di nuovo i denti, tra l’altro a spese dell’amata dentista, colpevole di non ricambiare il suo amore.
Se il paziente aveva ormai quasi finito i denti da sistemare, la dentista aveva da tempo perso la pazienza.
Così, per levarselo di torno una volta per tutte, decise di aumentare la dose di anestesia...
Quando si risvegliò, si accorse che la dentista gli aveva tolto tutti i denti. Lei gli spiegò che questa era sicuramente la soluzione migliore per risolvere una volta per tutte il suo problema.

A quel punto anche il paziente perse la pazienza. E non perché era rimasto senza denti, ma solo perché non avrebbe più rivisto la sua dentista.
Colto dalla disperazione, decise di dichiarare il suo amore. Tuttavia, essendo senza denti, lei non capì cosa stesse dicendo. Cercò allora di abbracciarla, ma venne frainteso, e finì in galera per tentata aggressione.
Sul giornale scrissero:
“Paziente rimasto senza denti, aggredisce dentista rimasta senza pazienza”.
Fu così che tutta la storia finì sul giornale. E per lei non fu una bella pubblicità.

Quando lui uscì, qualche tempo dopo, andò subito a trovare la dentista, munito per l’occasione di una dentiera nuova e di un mazzo di fiori.
Ma sulla porta dello studio dentistico, con sua grande sorpresa, trovò una modifica al cartello esposto, che ora diceva:
“Dentisti si nasce, pazienti si diventa.
Causa perdita pazienza… nonché pazienti, cedesi attività”
Tatiana

Lasciò i fiori sulla porta, e ci mise sopra la dentiera come sigillo, dal momento che non aveva con se biglietti di cortesia.

Quando qualcuno lo fermava per chiedergli se era valsa la pena di diventare famoso, al prezzo però di perdere tutti i denti, il paziente rispondeva sempre:
- “...eh, eh... chi rif..fica… non rof..fica!”

sabato 12 gennaio 2008

Un'estate lunga un sogno...

Perché proprio tu?
Poche parole da te sussurrate, bastano per scivolare dal bordo di un'esistenza sicura e certa, dentro ad un ignoto destino
alba di laceranti emozioni, perduti sogni e nuova vita.

Chi sei?
Dal nulla emergi in un istante fatidico,
trapassando animi assopiti, spente speranze, cuori non ancora sbocciati
di ingenui amanti e di veterani rubacuori.

Sei un dono …
Estinti amori risorgono in un'estate lunga un sogno
rivivendo essi di una giovinezza dimenticata o forse mai vissuta
rinata dai tuoi sorrisi, dai tuoi sguardi, sorsi d'acqua fonte di una seconda vita.

Vane Speranze…
… di un tuo sguardo, di una parola, di un insperato incontro
regali di un magnanimo destino,
da rimembrare e riassaporare come ricordi, in attesa di un seguito.

Dove ti poserai…..?
Baci donati a labbra socchiuse
forse reminiscenze di un tempo lontano, nostalgico o mai vissuto
forse rivincite per quell'unico cuore non disposto a rischiare il tuo amore.

Frigido sonno o sabbatico amore…?
Nella vana attesa di colui che non torna,
col cuore languido, ti concedi ingenui trasporti, donando genuini sorrisi,
mentre inguai altri cuori solitari, cercando conforto nei loro incompiuti amori.

Il tuo dono…
O destino beffardo,
O dea bendata ed incauta,
di un incantesimo le avete fatto dono,
innocente dolcezza e spontanea passione, pozione magica di emozioni uniche, nulla può un amore mortale, tranne che ringraziare per averti incontrato.

… cosa vogliono da te questi cuori randagi?
Un istante, un'ora, una vita intera
o forse solo un bacio, bramato e al tempo stesso temuto
come un ulteriore ricordo con cui dover convivere, sino al dimenticarsi di te.

Due cuori, un unico ingrato destino…
Tra canzoni d'estate e balli proibiti, cerchiamo sollievo
nella lunga notte, annegando in alcoliche alchimie,
il pensiero di colui, o colei, che è ancora presente dentro di noi.

Sofferenza e dissidio…
un Amore non corrisposto è simile ad un fiore non colto
in attesa del suo naturale epilogo, dopo un'estate in cui fu raggiante ed inutile, sprezzante egli rimane restio a prostrarsi ad un nuovo autunno.

Un lungo addio…
rapiti dal tuo fato, cuori erranti vagano alla ricerca di nuovi amori
forse per lenire il dolore di un sentimento solo assopito,
in attesa di un cenno di quella dea fatale, che li tiene sospesi nel limbo.