In un’enorme foresta, un vecchio albero stava finendo i suoi giorni. Ma non era un albero come tutti gli altri. Infatti, chi si avvicinava a lui, aveva l’impressione che l’albero gli parlasse, quasi fosse la sua coscienza. Un uomo che forse aveva bisogno di riflettere, si avvicinò.
E l’albero gli parlò.
“Suvvia non ti abbattere”, disse l’Albero.
“Guarda che non sono mica un Albero!” Gli rispose l’uomo. “Caso mai, sarete voi alberi a farvi abbattere”.
L’Albero replicò che non era propri così. Semplicemente, quando giungeva la loro ora, venivano abbattuti. Ma vivevano fino all’ultimo istante la loro vita. Non erano mai tristi e non avevano il problema di dove andare o cosa fare di diverso ogni giorno come gli uomini. Vivevano e basta.
L’uomo fece notare all’albero, che una vita così era una vita grama, sempre uguale e senza significato. Quindi, preferiva la sua, di uomo.
Al che l’albero gli chiese cosa avesse fatto lui di tanto importante, per poter dire che la sua vita era migliore di quella di un albero.
L’uomo ci pensò un po’ su, e poi disse che aveva fatto un sacco di cose, anche se una cosa davvero importante, doveva ancora venire. E siccome non aveva tempo da perdere…non sarebbe rimasto un minuto in più, a parlare con un albero.
Mentre stava per andarsene, l’Albero cominciò a raccontargli che una volta era passato di li un uomo come lui, e questi gli raccontò più o meno le stesse cose. Diceva che fra una cosa e l'altra, un lavoretto di qua ed una carriera di là, aveva sempre tirato a campare. Finché, si era convinto che fosse un po' troppo tardi per cambiare, e fare qualcosa di grande.
L’uomo tornò indietro. Pareva molto interessato a questa storia e chiese cosa aveva fatto in seguito l’altro uomo, negli anni che gli rimanevano da vivere.
L’albero rispose che aveva continuato a fare quello che stava facendo, come fanno tutti.
L’uomo rimase perplesso. Si disse che lui era ancora in tempo. Che poteva ancora fare qualcosa di importante e che doveva almeno provarci. Ma un dubbio lo assalì.
“E se poi non riuscissi ad ottenere alcun risultato, cosa farò?”
L’albero gli rispose con voce quieta: “Tornerai a fare quello che facevi prima.”
L’uomo ormai era un fiume in piena e si lasciò andare nelle sue esternazioni.
“Il problema è che non so se ce la farei, io non sono mica come te che ti fai bastare quello che hai. Vedi Albero, nel mondo degli uomini ci sono almeno due categorie, quelli che lavorano per vivere e quelli che vivono per lavorare.”
L’albero disse che anche questa l’aveva già sentita, ma l’uomo continuò comunque.
“Quelli che lavorano per vivere, sono come voi alberi, non devono raggiungere nessun obiettivo nella vita, a loro basta esistere. Gli altri, che vivono per lavorare invece, lo fanno per non avere troppo tempo libero, in quanto andrebbero in contro al rischio di pensare. Ed avere il tempo di riflettere, fa male a tutti gli uomini. Si finisce sempre per trovare qualcosa che non va’.”
“E tu, di quale delle due fai parte?” Gli chiese l’albero, che non poteva chiedere altro.
“Nessuna delle due purtroppo. Dico purtroppo, perché almeno gli altri nel loro piccolo, stanno bene. Io avrei la pretesa di trovare un senso alla mia vita. A quel punto niente più mi peserebbe. Ma tu non puoi capirmi, sei solo un Albero.”
“E non l'hai ancora trovato questo… senso?”
“No. Ma quando la troverò…”
“Ok, ma nel frattempo?” Chiese l’Albero interrompendolo, dato che anche questa storia l’aveva già sentita.
“Beh, sai, un lavoretto di qua, una carriera di là. Finché non mi viene l'illuminazione.”
L’Albero infine concluse. “Male che ti vada quando avrai l'età di quell’uomo che passò di qui, se l’illuminazione non fosse ancora arrivata, continuerai anche tu a fare come lui… quello che stavi facendo.”
L’uomo divenne scuro in volto. E replicò:
“Non so se ci riuscirei. Sai, io non sono come un Albero che fa quello che gli capita, facendoselo bastare. Io devo dare un senso alla mia vita! E se questo senso non lo trovassi, penso che sarebbe inutile viverla sino in fondo.”
E l’Albero: “Questa è una cosa che non capisco. Noi Alberi non possiamo decidere quando terminare la nostra vita. Ma voi uomini si, a quanto sembra.”
“Mi spiace per voi che non abbiate neanche questa possibilità. Siete costretti a vivere anche una vita inutile.”
“Sarà,” disse l’Albero, “ma ricordati che una volta che un albero è caduto, non può tornare in piedi.”
“E allora? Perchè dovrebbe occupare spazio in questo mondo senza un motivo preciso? Senza fare niente?”
“Cosa ne sai tu piccolo uomo, di cosa può fare un Albero?”
“E cosa avresti fatto tu da quando sei nato? Sentiamo.” Lo sfidò l’uomo.
L’Albero stette in silenzio e nella foresta si udì solo il rumore del vento. Centinaia di alberi producevano quel rumore, con le loro foglie, scosse dal vento. Quindi l’Albero riprese.
“Lo senti, piccolo uomo? Questo è il rumore della vita che fanno gli alberi. Riesci a sentirli? Io sono arrivato qui portato dal vento, sotto forma di un seme. Ero solo e piccolo più di te, ma poi secolo dopo secolo, con le mie spore ho dato vita ad una foresta. Eccola. Loro sono tutti miei figli, se li vuoi chiamare così. Ecco cosa ho fatto.”
“E con questo cosa vorresti dirmi?”
“Esattamente questo, per l’appunto. Che il senso della vita a volte non si capisce. Ma questo non significa che non l’abbiamo trovato.”
“Continuo a non capire.” Disse l’uomo perplesso.
“Bene, sei sulla strada giusta allora.”Rispose l’Albero.
L’uomo ripartì per la sua strada, con i suoi dubbi, e per anni non si fece più vedere.
Un giorno ritornò e vide che l’Albero era ancora lì.
L’Albero fu sorpreso di vederlo invece, perché l’uomo non era tornato da solo.
Con lui c’era anche la sua piccola foresta...
domenica 25 novembre 2007
domenica 7 ottobre 2007
Prospettiva bambola gonfiabile
D’un tratto un soffio di vita penetrò dentro me. Soffio dopo soffio, il mio corpo cresceva, delineando curve sinuose che non mi aspettavo certo di avere.
Colui che mi diede la vita, aveva il fiatone quando terminò. Poi mi rivestì di tutto punto, e capii quindi che doveva trattarsi di una serata speciale.
E lo era. Avrei conosciuto il mio principe azzurro. L’emozione era tanta che non riuscivo a chiudere le labbra. Quasi avessi fatto una paresi, me ne stavo li a bocca aperta come un’idiota! Cosa non fa l’emozione a volte…
Tutti i passeggeri che erano con me su quella carrozza che ci conduceva dal principe azzurro, si precipitarono ad ispezionare la mia ugola per capire cosa fosse successo. Qualcuno mi estrasse anche la lingua, forse perché pensava che quella fosse la causa del problema. Ma non era così.
Su quell'enorme carrozzone che mi ricordava una canzone di Renato Zero, c’erano solo uomini ed erano tutti incredibilmente affettuosi con me. Mi abbracciavano e mi stringevano da tutte le parti, tanto che a volte non riuscivo nemmeno a respirare. Anche perché, forse inavvertitamente, mi avevano un po’ tappato tutti i buchi!
Ma ecco che arrivò in mio soccorso proprio lui, il mio principe azzurro!
Era alto, biondo, un fulgido esemplare della specie umana. Aveva una maglietta un po’ idiota ma a lui stava benissimo. Girava con in testa due lattine di birra ed usava dissetarsi portandone il contenuto alla bocca con una cannuccia. Il mio principe ne sapeva una più del diavolo.
Finalmente ero tra le sue possenti braccia. Mi ritrovai a testa in giù e gambe in su, non capendo bene cosa dovevo fare. Ma a lui piaceva molto questa posizione, soprattutto per farsi fare tante belle foto.
Mi guardavano tutti quella sera. O quasi. L’unico che non mi guardava, era un tipo strano che guidava il carrozzone, mentre ci portava alla festa. Doveva essere un posto lontano, molto lontano, perché non si arrivava mai. Forse era in Asia .. chissà, del resto la strada sembrava infinita. Qualcuno aveva ribattezzato il pilota col nome greco di “Ulisse”, ma io non ho letto l’Iliade e l’Odissea e quindi non ne conosco i motivi.
Ad un certo punto ci fermammo a chiedere informazioni e scesi anch’io con loro. I passanti mi guardavano con occhi straniti, sembrava non avessero mai visto due tipi che vanno in giro con una bambola gonfiabile nuda sotto il braccio.
Ma ormai eravamo vicini. Intanto, sul carrozzone i passeggeri chiedevano ad Ulisse di portarli a Troia, anche se ne parlavano sempre al plurale, forse perché ne esisteva più d’una?! Sarà stato per quello che non riuscivamo a trovarla…
Finalmente giungemmo alla meta, che non era affatto bella come l’antica città di Troia, ma se non altro doveva essere molto vicino ad essa, visto il tempo che ci avevamo messo per arrivare.
Al convivio c’era un sacco di gente, ma nessuno ci aveva aspettato per la cena. Maleducati. Fu così che consumammo tutto frugalmente e senza riguardi, tanto che io mi ritrovai in bocca addirittura una bottiglia di vino e un salame dolce.. non vi dico dove! Avevamo tralasciato un po’ le buone maniere, in quell’occasione.
Ma poi ecco la notizia che tutte le donne si aspettano di sentire nella loro vita. Al microfono l’oratore della serata, un certo Omero, disse che il mio principe azzurro aveva annunciato le sue nozze. Quindi era vero? Quella festa era proprio in onore del nostro fidanzamento!
Non riuscivo a crederci…ero rimasta a bocca aperta. Nel frattempo gli ospiti mi portavano in trionfo facendomi svolazzare da una parte all’altra della tavola, mentre il mio principe, si divertiva in una sorta di addio al celibato improvvisato, con delle altrettanto improvvisate ballerine di danza del ventre. Ma si vedeva che non erano il suo tipo. Loro erano solo dei normalissimi esseri umani, non avrebbero mai potuto competere con una splendida bambola tuttofare come me.
E fu così che la nostra serata si trasformò in un idillio. Ovunque mi celebravano, e tutti si complimentavano con me, producendosi in effusioni di ogni genere che avrebbero fatto ingelosire chiunque, ma non il mio principe. Lui per fortuna era di visioni aperte come me, sentivo che non ci sarebbero mai stati problemi tra noi.
Non si arrabbiò neppure quando con delle giovani umane che festeggiavano un addio al nubilato, utilizzai assieme a loro dei giocattoli che si erano portate appresso, quelli che di solito servono per fare l’amore… e che sono sempre pronti all’uso.
La cosa fantastica era che anche questi giocattoli erano di plastica come me, ed io potei giocare tranquillamente con quei miei consimili senza che lui mi dicesse nulla. Che uomo! Era quasi perfetto, peccato che fosse solo umano. Ah, se fosse stato almeno un po’ sintetico come me, sarebbe stato perfetto! Ma in fondo andava bene anche così.
Il nostro sarà il primo matrimonio di una nuova era, il primo matrimonio tra una bambola di plastica ed un umano.
Le cose ormai stanno cambiando. Gli umani puntano alla perfezione e tentano di assomigliare a noi sempre più, attaccandosi perfino dei pezzi di silicone qua e là. Tutto inutile. Non saranno mai perfetti come me, ed il mio principe l’ha capito per primo.
Intanto la serata volgeva alla fine ed il nostro Ulisse stava già scaldando i motori per il lungo viaggio che ci avrebbe riportati a casa.
Al ritorno pensammo bene di cambiare strada, avvalendoci di un navigatore esperto che nonostante la voce alterata dall’alcol e lo sguardo etereo da coma etilico, godeva comunque più fiducia del noto Ulisse, vittima forse della sua stessa fama.
Io ero stata posta proprio in mezzo ai due, sulla prua del nostro mezzo che ondeggiava come un veliero nella notte buia, forse con la speranza che portassi almeno un po’ di fortuna. Caddero presto tutti in un sonno profondo, rotto solo dagli intermezzi di qualche olfo passeggero che invitava il capitano a portarci a Troie, intendendo con questo, credo, altre città simili a quella appena visitata.
Dopo un tempo imprecisato, giungemmo in un luogo che credemmo fosse l’Hellas, la patria. Invece era solo la città dell’Hellas Verona, ma pur sempre una città con la C maiuscola. Del resto, bisognava accontentarsi di quei tempi, ci dissero i locali.
Fu li che celebrammo la nostra impresa con una foto di gruppo, in cui fui portata ancora una volta in trionfo, proprio sul parabrezza del carrozzone.
Ma avevamo cantato vittoria troppo presto. Gli Dei ci erano avversi. O forse erano solo adirati con Ulisse per qualche suo misfatto. Non c’era da stupirsene, dal momento che era riuscito perfino a far venire il mal di mare ad uno di noi, pur guidando sulla terra ferma.
Proprio quando pensavamo di essere ormai giunti, alcuni Dei ci fermarono ed imposero ad Ulisse di soffiare in una cornucopia, e noi tutti rimanemmo in ansia per l’esito di un tale sortilegio. Ma nonostante Ulisse ringraziasse gli Dei a modo suo, comparandoli a vari animali domestici, la sorte ci sorrise e ripartimmo per la nostra Odissea, a dir il vero sempre più stanchi e scorati.
Quando tutto sembrava perduto, giungemmo ad un tempio, laddove Ulisse disse al mio principe che aveva parlato con gli Dei nel sonno, mentre stava guidando, e loro gli dissero che per rivedere la sua patria, doveva sacrificare la cosa che aveva più cara al mondo.
Il mio principe si commosse.
Se fino ad un istante prima ero contenta di essere diventata la cosa più importante della sua vita, adesso lo ero un po’ meno. A quanto sembrava, toccava proprio a me la sorte del sacrificio.
Senza ulteriori indugi, Ulisse mi preparò per il rito sacrificale. Fui posta proprio sotto la ruota del carrozzone, che ci aveva portati così lontano.
Tutti si riunirono attorno a me, e mi osservarono mentre la ruota avanzava ed io mi gonfiavo a dismisura.
Con un ultimo sguardo al mio principe, gli augurai di trovare un’altra bambola bella come me, per quanto fosse un’impresa quasi impossibile.
Un boato turbò il sonno dei cittadini del piccolo paesino. Quello fu l’unico suono che emisi in tutta la mia vita. Se solo avessi avuto il dono della parola…non sarebbe andata così!
La mattina dopo alcuni bimbi trovarono una strana bambola tutta sgonfia, nel cestino di fronte all’asilo. Poco dopo le maestre cercarono di spiegare loro perché esistevano delle bambole con la bocca sempre spalancata.
Da quella stessa bocca la sera prima, mentre il carrozzone era sopra di lei, qualcuno giurò di aver visto uscire una lunga lingua, puntata in direzione dei presenti. Alcuni lo interpretarono come un maleficio.
Il principe lo vide come un estremo gesto d’amore.
Ulisse, era convinto che fosse il dito medio di uno degli Dei che ce l’aveva con lui.
Colui che mi diede la vita, aveva il fiatone quando terminò. Poi mi rivestì di tutto punto, e capii quindi che doveva trattarsi di una serata speciale.
E lo era. Avrei conosciuto il mio principe azzurro. L’emozione era tanta che non riuscivo a chiudere le labbra. Quasi avessi fatto una paresi, me ne stavo li a bocca aperta come un’idiota! Cosa non fa l’emozione a volte…
Tutti i passeggeri che erano con me su quella carrozza che ci conduceva dal principe azzurro, si precipitarono ad ispezionare la mia ugola per capire cosa fosse successo. Qualcuno mi estrasse anche la lingua, forse perché pensava che quella fosse la causa del problema. Ma non era così.
Su quell'enorme carrozzone che mi ricordava una canzone di Renato Zero, c’erano solo uomini ed erano tutti incredibilmente affettuosi con me. Mi abbracciavano e mi stringevano da tutte le parti, tanto che a volte non riuscivo nemmeno a respirare. Anche perché, forse inavvertitamente, mi avevano un po’ tappato tutti i buchi!
Ma ecco che arrivò in mio soccorso proprio lui, il mio principe azzurro!
Era alto, biondo, un fulgido esemplare della specie umana. Aveva una maglietta un po’ idiota ma a lui stava benissimo. Girava con in testa due lattine di birra ed usava dissetarsi portandone il contenuto alla bocca con una cannuccia. Il mio principe ne sapeva una più del diavolo.
Finalmente ero tra le sue possenti braccia. Mi ritrovai a testa in giù e gambe in su, non capendo bene cosa dovevo fare. Ma a lui piaceva molto questa posizione, soprattutto per farsi fare tante belle foto.
Mi guardavano tutti quella sera. O quasi. L’unico che non mi guardava, era un tipo strano che guidava il carrozzone, mentre ci portava alla festa. Doveva essere un posto lontano, molto lontano, perché non si arrivava mai. Forse era in Asia .. chissà, del resto la strada sembrava infinita. Qualcuno aveva ribattezzato il pilota col nome greco di “Ulisse”, ma io non ho letto l’Iliade e l’Odissea e quindi non ne conosco i motivi.
Ad un certo punto ci fermammo a chiedere informazioni e scesi anch’io con loro. I passanti mi guardavano con occhi straniti, sembrava non avessero mai visto due tipi che vanno in giro con una bambola gonfiabile nuda sotto il braccio.
Ma ormai eravamo vicini. Intanto, sul carrozzone i passeggeri chiedevano ad Ulisse di portarli a Troia, anche se ne parlavano sempre al plurale, forse perché ne esisteva più d’una?! Sarà stato per quello che non riuscivamo a trovarla…
Finalmente giungemmo alla meta, che non era affatto bella come l’antica città di Troia, ma se non altro doveva essere molto vicino ad essa, visto il tempo che ci avevamo messo per arrivare.
Al convivio c’era un sacco di gente, ma nessuno ci aveva aspettato per la cena. Maleducati. Fu così che consumammo tutto frugalmente e senza riguardi, tanto che io mi ritrovai in bocca addirittura una bottiglia di vino e un salame dolce.. non vi dico dove! Avevamo tralasciato un po’ le buone maniere, in quell’occasione.
Ma poi ecco la notizia che tutte le donne si aspettano di sentire nella loro vita. Al microfono l’oratore della serata, un certo Omero, disse che il mio principe azzurro aveva annunciato le sue nozze. Quindi era vero? Quella festa era proprio in onore del nostro fidanzamento!
Non riuscivo a crederci…ero rimasta a bocca aperta. Nel frattempo gli ospiti mi portavano in trionfo facendomi svolazzare da una parte all’altra della tavola, mentre il mio principe, si divertiva in una sorta di addio al celibato improvvisato, con delle altrettanto improvvisate ballerine di danza del ventre. Ma si vedeva che non erano il suo tipo. Loro erano solo dei normalissimi esseri umani, non avrebbero mai potuto competere con una splendida bambola tuttofare come me.
E fu così che la nostra serata si trasformò in un idillio. Ovunque mi celebravano, e tutti si complimentavano con me, producendosi in effusioni di ogni genere che avrebbero fatto ingelosire chiunque, ma non il mio principe. Lui per fortuna era di visioni aperte come me, sentivo che non ci sarebbero mai stati problemi tra noi.
Non si arrabbiò neppure quando con delle giovani umane che festeggiavano un addio al nubilato, utilizzai assieme a loro dei giocattoli che si erano portate appresso, quelli che di solito servono per fare l’amore… e che sono sempre pronti all’uso.
La cosa fantastica era che anche questi giocattoli erano di plastica come me, ed io potei giocare tranquillamente con quei miei consimili senza che lui mi dicesse nulla. Che uomo! Era quasi perfetto, peccato che fosse solo umano. Ah, se fosse stato almeno un po’ sintetico come me, sarebbe stato perfetto! Ma in fondo andava bene anche così.
Il nostro sarà il primo matrimonio di una nuova era, il primo matrimonio tra una bambola di plastica ed un umano.
Le cose ormai stanno cambiando. Gli umani puntano alla perfezione e tentano di assomigliare a noi sempre più, attaccandosi perfino dei pezzi di silicone qua e là. Tutto inutile. Non saranno mai perfetti come me, ed il mio principe l’ha capito per primo.
Intanto la serata volgeva alla fine ed il nostro Ulisse stava già scaldando i motori per il lungo viaggio che ci avrebbe riportati a casa.
Al ritorno pensammo bene di cambiare strada, avvalendoci di un navigatore esperto che nonostante la voce alterata dall’alcol e lo sguardo etereo da coma etilico, godeva comunque più fiducia del noto Ulisse, vittima forse della sua stessa fama.
Io ero stata posta proprio in mezzo ai due, sulla prua del nostro mezzo che ondeggiava come un veliero nella notte buia, forse con la speranza che portassi almeno un po’ di fortuna. Caddero presto tutti in un sonno profondo, rotto solo dagli intermezzi di qualche olfo passeggero che invitava il capitano a portarci a Troie, intendendo con questo, credo, altre città simili a quella appena visitata.
Dopo un tempo imprecisato, giungemmo in un luogo che credemmo fosse l’Hellas, la patria. Invece era solo la città dell’Hellas Verona, ma pur sempre una città con la C maiuscola. Del resto, bisognava accontentarsi di quei tempi, ci dissero i locali.
Fu li che celebrammo la nostra impresa con una foto di gruppo, in cui fui portata ancora una volta in trionfo, proprio sul parabrezza del carrozzone.
Ma avevamo cantato vittoria troppo presto. Gli Dei ci erano avversi. O forse erano solo adirati con Ulisse per qualche suo misfatto. Non c’era da stupirsene, dal momento che era riuscito perfino a far venire il mal di mare ad uno di noi, pur guidando sulla terra ferma.
Proprio quando pensavamo di essere ormai giunti, alcuni Dei ci fermarono ed imposero ad Ulisse di soffiare in una cornucopia, e noi tutti rimanemmo in ansia per l’esito di un tale sortilegio. Ma nonostante Ulisse ringraziasse gli Dei a modo suo, comparandoli a vari animali domestici, la sorte ci sorrise e ripartimmo per la nostra Odissea, a dir il vero sempre più stanchi e scorati.
Quando tutto sembrava perduto, giungemmo ad un tempio, laddove Ulisse disse al mio principe che aveva parlato con gli Dei nel sonno, mentre stava guidando, e loro gli dissero che per rivedere la sua patria, doveva sacrificare la cosa che aveva più cara al mondo.
Il mio principe si commosse.
Se fino ad un istante prima ero contenta di essere diventata la cosa più importante della sua vita, adesso lo ero un po’ meno. A quanto sembrava, toccava proprio a me la sorte del sacrificio.
Senza ulteriori indugi, Ulisse mi preparò per il rito sacrificale. Fui posta proprio sotto la ruota del carrozzone, che ci aveva portati così lontano.
Tutti si riunirono attorno a me, e mi osservarono mentre la ruota avanzava ed io mi gonfiavo a dismisura.
Con un ultimo sguardo al mio principe, gli augurai di trovare un’altra bambola bella come me, per quanto fosse un’impresa quasi impossibile.
Un boato turbò il sonno dei cittadini del piccolo paesino. Quello fu l’unico suono che emisi in tutta la mia vita. Se solo avessi avuto il dono della parola…non sarebbe andata così!
La mattina dopo alcuni bimbi trovarono una strana bambola tutta sgonfia, nel cestino di fronte all’asilo. Poco dopo le maestre cercarono di spiegare loro perché esistevano delle bambole con la bocca sempre spalancata.
Da quella stessa bocca la sera prima, mentre il carrozzone era sopra di lei, qualcuno giurò di aver visto uscire una lunga lingua, puntata in direzione dei presenti. Alcuni lo interpretarono come un maleficio.
Il principe lo vide come un estremo gesto d’amore.
Ulisse, era convinto che fosse il dito medio di uno degli Dei che ce l’aveva con lui.
venerdì 21 settembre 2007
La Rosa di giada
“In un paese lontano, esisteva un uomo che non aveva ancora conosciuto l’amore e che da sempre si era occupato solo delle sue rose, alle quali aveva dedicato tutta la vita.
Aveva avuto rose di ogni genere ed ormai era convinto che niente lo avrebbe più sorpreso sino alla fine dei suoi giorni.
Ma un giorno, recatosi nel suo giardino dopo un terribile temporale, vide che era rimasto ben poco delle sue rose, tranne una, più rigogliosa che mai, e che fino a quel giorno non aveva mai notato in mezzo a tutte le altre.
Era una rosa verde, come una pietra di giada.
Si rese conto che era la rosa più bella che avesse mai avuto.
Era così bella che gli faceva paura perfino toccarla, e gli sembrava impossibile che una rosa così fosse nata proprio nel suo giardino.
Forse, perché la vedeva così forte rispetto alle altre, o forse solo per la paura di rimanere stregato dalla sua bellezza, dedicò tutte le sue attenzioni alle altre rose che erano state colpite dal temporale, convincendosi che loro avessero molto più bisogno di lui, di quanto potesse averne quella rosa così forte e rigogliosa.
Un giorno, quando finalmente le altre rose si furono riprese, si rese conto che quella splendida rosa di giada non c’era più.
Non riusciva a capire dove fosse finita, ma poi si accorse che dedicando tutte le sue attenzioni alle altre, aveva dimenticato di occuparsi di quella a cui teneva di più.
Quando la ritrovò, si rese conto che non c’era più nulla che potesse fare per lei.
Solo in quel momento capì che non avrebbe più avuto una rosa così e solo allora si accorse che non sarebbero bastate tutte le rose del suo giardino a consolarlo.
Decise quindi di abbandonare tutto quello per cui aveva vissuto sino a quel giorno, e di partire alla ricerca di una rosa di giada che fosse simile a quella che aveva perso per sempre.
Nessuno seppe più niente di quel uomo.
…
Anni dopo, alcuni raccontarono che in un paese lontano viveva un vecchio pazzo, che compariva dal nulla solo dopo un temporale, e a chi gli chiedeva cosa stesse cercando, egli rispondeva che in gioventù aveva perso il vero amore ed era convinto che esso potesse nascere solo dopo i temporali più forti… “
Aveva avuto rose di ogni genere ed ormai era convinto che niente lo avrebbe più sorpreso sino alla fine dei suoi giorni.
Ma un giorno, recatosi nel suo giardino dopo un terribile temporale, vide che era rimasto ben poco delle sue rose, tranne una, più rigogliosa che mai, e che fino a quel giorno non aveva mai notato in mezzo a tutte le altre.
Era una rosa verde, come una pietra di giada.
Si rese conto che era la rosa più bella che avesse mai avuto.
Era così bella che gli faceva paura perfino toccarla, e gli sembrava impossibile che una rosa così fosse nata proprio nel suo giardino.
Forse, perché la vedeva così forte rispetto alle altre, o forse solo per la paura di rimanere stregato dalla sua bellezza, dedicò tutte le sue attenzioni alle altre rose che erano state colpite dal temporale, convincendosi che loro avessero molto più bisogno di lui, di quanto potesse averne quella rosa così forte e rigogliosa.
Un giorno, quando finalmente le altre rose si furono riprese, si rese conto che quella splendida rosa di giada non c’era più.
Non riusciva a capire dove fosse finita, ma poi si accorse che dedicando tutte le sue attenzioni alle altre, aveva dimenticato di occuparsi di quella a cui teneva di più.
Quando la ritrovò, si rese conto che non c’era più nulla che potesse fare per lei.
Solo in quel momento capì che non avrebbe più avuto una rosa così e solo allora si accorse che non sarebbero bastate tutte le rose del suo giardino a consolarlo.
Decise quindi di abbandonare tutto quello per cui aveva vissuto sino a quel giorno, e di partire alla ricerca di una rosa di giada che fosse simile a quella che aveva perso per sempre.
Nessuno seppe più niente di quel uomo.
…
Anni dopo, alcuni raccontarono che in un paese lontano viveva un vecchio pazzo, che compariva dal nulla solo dopo un temporale, e a chi gli chiedeva cosa stesse cercando, egli rispondeva che in gioventù aveva perso il vero amore ed era convinto che esso potesse nascere solo dopo i temporali più forti… “
sabato 4 agosto 2007
La bicicletta da donna
Tanti anni fa, conobbi una brava ragazza. E tutte le sere andavo a trovarla, con la mia bicicletta.
Il nostro amore crebbe giorno dopo giorno, finché con l’amore, arrivò anche la gelosia.
Infatti, divenne gelosa dell’unica cosa che vedevo più di lei. La mia bicicletta.
Non poteva proprio sopportarla, e quando mi allontanavo in sella alla mia bici, da lontano percepivo la sua invidia arrivare sino a me.
Ma anche la mia bicicletta non poteva sopportare la mia ragazza. Diceva che si sentiva usata, perché io la utilizzavo solo per andare da lei. E aggiunse che se non avessi lasciato la ragazza, lei, la bicicletta intendo, mi avrebbe lasciato a piedi.
E così fece…
La situazione era assai complessa, perché senza bicicletta non potevo andare a trovare la mia ragazza, che abitava molto lontano.
In questo modo ero rimasto senza l’una e l’altra.
Finché un giorno, pur di non restare a piedi, convinsi la mia bicicletta che io e la mia ragazza ci eravamo lasciati e che ora c’era solo lei per me. E fu così che mi ritrovai in sella.
In realtà, senza che se ne accorgesse, andammo per un’altra strada sempre da colei che amavo. Quando arrivammo, dissi tutta la verità alla mia ragazza, vale a dire che se non mi aveva più visto, era stato tutto colpa della mia bicicletta, che era diventata gelosa.
Lei mi guardò perplessa. Man mano che ascoltava il mio racconto, diventava sempre più scura in volto.
Infine, cominciò a menarmi, pensando che mi stessi prendendo gioco di lei. Disse che non voleva più vedermi e tante altre cose. E mentre mi menava io scappavo verso la mia bicicletta, per fuggire via di lì.
Cominciai a pensare che fra le due fosse meglio la bici, almeno da quella non le avrei prese.
Quando raggiunsi la bicicletta, questa si accorse che in realtà eravamo tornati dalla mia ragazza, ma per un’altra strada. Sentendosi tradita, non ne volle sapere di partire e mi lasciò a piedi di nuovo.
Così mi toccò darmela a gambe, con la mia ragazza sempre alle calcagna, infuriata più che mai.
Solo quando mi sembrò di averla seminata, mi voltai. La vidi che se ne stava andando sulla mia bicicletta! Incredulo, cominciai a rincorrerle, chiedendo spiegazioni a tutte e due.
La mia ragazza disse che così sarei rimasto senza entrambe, e che era l’unico modo per rendermi conto di quello che avevo fatto, nonché la giusta punizione per essermi preso gioco di lei.
Non capii cosa avessi fatto di male, ma ancora di più non capivo come potesse la mia bicicletta andarsene così tranquillamente proprio con colei della quale era gelosa.
Infine, la bicicletta, girò il manubrio e disse che si era stancata degli uomini falsi e spergiuri, e che d’ora in poi sarebbe diventata una bicicletta da donna.
Ero stato lasciato e tradito da entrambe!
Da quel giorno capii che non bisogna mai dire tutta la verità alle donne, ma soprattutto che non si devono mai raccontare bugie alle biciclette, se non si vuole correre il rischio di rimanere a piedi delle une e delle altre.
Il nostro amore crebbe giorno dopo giorno, finché con l’amore, arrivò anche la gelosia.
Infatti, divenne gelosa dell’unica cosa che vedevo più di lei. La mia bicicletta.
Non poteva proprio sopportarla, e quando mi allontanavo in sella alla mia bici, da lontano percepivo la sua invidia arrivare sino a me.
Ma anche la mia bicicletta non poteva sopportare la mia ragazza. Diceva che si sentiva usata, perché io la utilizzavo solo per andare da lei. E aggiunse che se non avessi lasciato la ragazza, lei, la bicicletta intendo, mi avrebbe lasciato a piedi.
E così fece…
La situazione era assai complessa, perché senza bicicletta non potevo andare a trovare la mia ragazza, che abitava molto lontano.
In questo modo ero rimasto senza l’una e l’altra.
Finché un giorno, pur di non restare a piedi, convinsi la mia bicicletta che io e la mia ragazza ci eravamo lasciati e che ora c’era solo lei per me. E fu così che mi ritrovai in sella.
In realtà, senza che se ne accorgesse, andammo per un’altra strada sempre da colei che amavo. Quando arrivammo, dissi tutta la verità alla mia ragazza, vale a dire che se non mi aveva più visto, era stato tutto colpa della mia bicicletta, che era diventata gelosa.
Lei mi guardò perplessa. Man mano che ascoltava il mio racconto, diventava sempre più scura in volto.
Infine, cominciò a menarmi, pensando che mi stessi prendendo gioco di lei. Disse che non voleva più vedermi e tante altre cose. E mentre mi menava io scappavo verso la mia bicicletta, per fuggire via di lì.
Cominciai a pensare che fra le due fosse meglio la bici, almeno da quella non le avrei prese.
Quando raggiunsi la bicicletta, questa si accorse che in realtà eravamo tornati dalla mia ragazza, ma per un’altra strada. Sentendosi tradita, non ne volle sapere di partire e mi lasciò a piedi di nuovo.
Così mi toccò darmela a gambe, con la mia ragazza sempre alle calcagna, infuriata più che mai.
Solo quando mi sembrò di averla seminata, mi voltai. La vidi che se ne stava andando sulla mia bicicletta! Incredulo, cominciai a rincorrerle, chiedendo spiegazioni a tutte e due.
La mia ragazza disse che così sarei rimasto senza entrambe, e che era l’unico modo per rendermi conto di quello che avevo fatto, nonché la giusta punizione per essermi preso gioco di lei.
Non capii cosa avessi fatto di male, ma ancora di più non capivo come potesse la mia bicicletta andarsene così tranquillamente proprio con colei della quale era gelosa.
Infine, la bicicletta, girò il manubrio e disse che si era stancata degli uomini falsi e spergiuri, e che d’ora in poi sarebbe diventata una bicicletta da donna.
Ero stato lasciato e tradito da entrambe!
Da quel giorno capii che non bisogna mai dire tutta la verità alle donne, ma soprattutto che non si devono mai raccontare bugie alle biciclette, se non si vuole correre il rischio di rimanere a piedi delle une e delle altre.
domenica 1 luglio 2007
L'amore polifemo
In un tempo lontano, esisteva un piccolo villaggio di pescatori dove abitava un ragazzo con un occhio solo, schernito ed evitato da tutti per questa sua sfortuna.
Nessuna donna lo aveva mai preso in considerazione ed anzi, spesso dei piccoli sorrisi accompagnavano il suo passaggio.
La vita di questo giovane pescatore, continuava comunque serena e solitaria in compagnia del suo mare e dei suoi pesci, per nulla turbata dal fatto di non aver mai conosciuto l'amore.
Ma un giorno, un evento inatteso turbò la quiete di quel tranquillo villaggio e ne modificò la storia per sempre.
Nella rete di un pescatore, finì una splendida Sirena dai capelli rossi come il fuoco. Sembrava stesse dormendo.
Giunti al villaggio, la Sirena fu subito trattata con tutte le attenzioni dai pescatori che non avevano mai visto niente di così bello.
Quando si svegliò, essi si resero conto che era del tutto cieca.
Chiesero cosa le fosse accaduto, e lei narrò la sua vicenda con una voce melodiosa e suadente, molto simile ad un canto. Ma le sue parole narravano di una storia triste, che rivelava la crudeltà degli uomini.
Tempo addietro, si era innamorata di un uomo e con questi aveva vissuto molti anni, per quanto la sua natura le consentisse di stare assieme a lui.
Il tempo passava, e l’uomo si rese conto che la bella Sirena non sarebbe mai invecchiata, al contrario di lui, e capì che prima o poi, l'avrebbe persa per sempre.
Egli non riusciva ad accettare questa idea che poco a poco lo fece impazzire. Finché un giorno, fuori di sé, l’accecò, così che non potesse più allontanarsi da lui e dalla sua Isola.
Quando quell'uomo morì, la Sirena prese il mare e vagò per giorni e giorni, finché finì nella rete del pescatore che la portò in salvo.
La storia riempì di commozione tutti i pescatori del villaggio che sentendosi in colpa per la crudeltà di un loro simile, decisero di adottare la povera Sirena ed occuparsi di lei.
Ma la bellezza della Sirena, unita al suo canto, fece presto scoppiare invidie e rancori fra gli uomini, che la volevano ognuno tutta per se.
Presto, la situazione divenne insostenibile.
E fu così che i pescatori si riunirono e decisero che sarebbe stata la Sirena a scegliere chi fra loro si sarebbe occupato di lei. Ciascuno di essi era convinto che sarebbe stato il prescelto.
La Sirena accettò. Ma non proferì alcun nome. Anzi, disse che avrebbe indetto una prova e a colui che l'avesse superata, avrebbe donato il suo amore.
All’udire quelle parole gli uomini del villaggio andarono in visibilio, e rimasero in ascolto, per sentire di che prova si trattasse.
Ella si espresse attraverso il suo canto. Mano a mano che proseguiva, i volti dei pescatori si facevano sempre più bui. La prova era davvero degna di questo nome.
Dalle sue parole, emerse che se qualcuno di loro avesse avuto il coraggio di donarle uno dei propri occhi, forse, attraverso un sortilegio, lei avrebbe potuto riacquistare la vista. In cambio, si sarebbe legata per sempre a colui che le avesse fatto questo dono.
Quindi, concluse aggiungendo che quella stessa notte avrebbe lasciato una cesta su uno scoglio, per contenere l'occhio di colui che l’avrebbe avuta per sempre.
I pescatori si guardarono in silenzio, e ad uno ad uno si ritirarono nelle proprie case.
La notte trascorse insonne per molti di loro.
La mattina dopo, la Sirena era scomparsa. Ma nella cesta, c'erano decine di occhi. Uno per ogni uomo del piccolo villaggio.
Per giorni e giorni i pescatori rimasero in attesa, senza prendere il mare. Nel paese regnava uno strano silenzio e nessuno usciva più nemmeno di casa per il timore di mostrarsi agli altri con un occhio solo, non sapendo che tutti erano nella medesima condizione.
Una sera, al tramonto, il silenzio del piccolo paesino fu rotto dal canto della Sirena.
Gli uomini si precipitarono alla scogliera, da dove il canto proveniva ed ivi giunti, si guardarono l'un l'altro, ciascuno con l'unico occhio che gli era rimasto.
Lì, su uno scoglio, stava distesa la splendida Sirena che li osservava sorridendo, con i suoi bellissimi occhi dorati.
I pescatori le chiesero se avesse dunque riacquisito la vista grazie al loro sacrificio, ma lei spiegò che in realtà non l'aveva mai perduta, e che nessun uomo l'aveva mai nemmeno rapita od accecata. Per tutto il tempo che era rimasta con loro, aveva solo tenuto gli occhi chiusi.
Gli uomini non riuscivano a capire.
Tempo addietro, continuò lei, udì in mare la conversazione di alcuni pescatori che parlavano dell’amore come di una cosa bellissima. Ma uno di loro li mise in guardia, perché, disse, l’amore è cieco e chi si fosse perso in esso avrebbe potuto compiere qualsiasi gesto.
Incuriosita dal racconto, la Sirena visitò molti villaggi, alla ricerca di questa formidabile magia che colpiva gli uomini. Ma non trovò niente del genere. Quindi decise di mettersi in gioco in prima persona, adottando quello stratagemma.
E quel giorno era riuscita a capire cosa volesse dire.
I pescatori, passata la sorpresa, chiesero se avrebbe mantenuto comunque la promessa, scegliendo uno di loro.
Lei annuì, affermando che aveva già adempiuto alla promessa fatta.
Al suo fianco, c’era il ragazzo da un occhio solo che tutti schernivano. Sembrava felice, anche se un po’ confuso.
Quando l’ultimo raggio di sole lo illuminò, essi videro che ora, egli non aveva più nemmeno quell'unico occhio.
Intonando il suo ultimo canto, la Sirena disse che la sua scelta era ricaduta su colui che nonostante avesse avuto un solo occhio, senza esitare aveva deciso di donarglielo, dimostrandole così di amarla più di se stesso.
Ora, l'avrebbe portato con se laddove gli occhi non servivano, nelle profondità del mare.
Infine, concluse dicendo che solo grazie a lui, aveva compreso esattamente perché gli uomini dicessero… che l’amore è cieco.
Nessuna donna lo aveva mai preso in considerazione ed anzi, spesso dei piccoli sorrisi accompagnavano il suo passaggio.
La vita di questo giovane pescatore, continuava comunque serena e solitaria in compagnia del suo mare e dei suoi pesci, per nulla turbata dal fatto di non aver mai conosciuto l'amore.
Ma un giorno, un evento inatteso turbò la quiete di quel tranquillo villaggio e ne modificò la storia per sempre.
Nella rete di un pescatore, finì una splendida Sirena dai capelli rossi come il fuoco. Sembrava stesse dormendo.
Giunti al villaggio, la Sirena fu subito trattata con tutte le attenzioni dai pescatori che non avevano mai visto niente di così bello.
Quando si svegliò, essi si resero conto che era del tutto cieca.
Chiesero cosa le fosse accaduto, e lei narrò la sua vicenda con una voce melodiosa e suadente, molto simile ad un canto. Ma le sue parole narravano di una storia triste, che rivelava la crudeltà degli uomini.
Tempo addietro, si era innamorata di un uomo e con questi aveva vissuto molti anni, per quanto la sua natura le consentisse di stare assieme a lui.
Il tempo passava, e l’uomo si rese conto che la bella Sirena non sarebbe mai invecchiata, al contrario di lui, e capì che prima o poi, l'avrebbe persa per sempre.
Egli non riusciva ad accettare questa idea che poco a poco lo fece impazzire. Finché un giorno, fuori di sé, l’accecò, così che non potesse più allontanarsi da lui e dalla sua Isola.
Quando quell'uomo morì, la Sirena prese il mare e vagò per giorni e giorni, finché finì nella rete del pescatore che la portò in salvo.
La storia riempì di commozione tutti i pescatori del villaggio che sentendosi in colpa per la crudeltà di un loro simile, decisero di adottare la povera Sirena ed occuparsi di lei.
Ma la bellezza della Sirena, unita al suo canto, fece presto scoppiare invidie e rancori fra gli uomini, che la volevano ognuno tutta per se.
Presto, la situazione divenne insostenibile.
E fu così che i pescatori si riunirono e decisero che sarebbe stata la Sirena a scegliere chi fra loro si sarebbe occupato di lei. Ciascuno di essi era convinto che sarebbe stato il prescelto.
La Sirena accettò. Ma non proferì alcun nome. Anzi, disse che avrebbe indetto una prova e a colui che l'avesse superata, avrebbe donato il suo amore.
All’udire quelle parole gli uomini del villaggio andarono in visibilio, e rimasero in ascolto, per sentire di che prova si trattasse.
Ella si espresse attraverso il suo canto. Mano a mano che proseguiva, i volti dei pescatori si facevano sempre più bui. La prova era davvero degna di questo nome.
Dalle sue parole, emerse che se qualcuno di loro avesse avuto il coraggio di donarle uno dei propri occhi, forse, attraverso un sortilegio, lei avrebbe potuto riacquistare la vista. In cambio, si sarebbe legata per sempre a colui che le avesse fatto questo dono.
Quindi, concluse aggiungendo che quella stessa notte avrebbe lasciato una cesta su uno scoglio, per contenere l'occhio di colui che l’avrebbe avuta per sempre.
I pescatori si guardarono in silenzio, e ad uno ad uno si ritirarono nelle proprie case.
La notte trascorse insonne per molti di loro.
La mattina dopo, la Sirena era scomparsa. Ma nella cesta, c'erano decine di occhi. Uno per ogni uomo del piccolo villaggio.
Per giorni e giorni i pescatori rimasero in attesa, senza prendere il mare. Nel paese regnava uno strano silenzio e nessuno usciva più nemmeno di casa per il timore di mostrarsi agli altri con un occhio solo, non sapendo che tutti erano nella medesima condizione.
Una sera, al tramonto, il silenzio del piccolo paesino fu rotto dal canto della Sirena.
Gli uomini si precipitarono alla scogliera, da dove il canto proveniva ed ivi giunti, si guardarono l'un l'altro, ciascuno con l'unico occhio che gli era rimasto.
Lì, su uno scoglio, stava distesa la splendida Sirena che li osservava sorridendo, con i suoi bellissimi occhi dorati.
I pescatori le chiesero se avesse dunque riacquisito la vista grazie al loro sacrificio, ma lei spiegò che in realtà non l'aveva mai perduta, e che nessun uomo l'aveva mai nemmeno rapita od accecata. Per tutto il tempo che era rimasta con loro, aveva solo tenuto gli occhi chiusi.
Gli uomini non riuscivano a capire.
Tempo addietro, continuò lei, udì in mare la conversazione di alcuni pescatori che parlavano dell’amore come di una cosa bellissima. Ma uno di loro li mise in guardia, perché, disse, l’amore è cieco e chi si fosse perso in esso avrebbe potuto compiere qualsiasi gesto.
Incuriosita dal racconto, la Sirena visitò molti villaggi, alla ricerca di questa formidabile magia che colpiva gli uomini. Ma non trovò niente del genere. Quindi decise di mettersi in gioco in prima persona, adottando quello stratagemma.
E quel giorno era riuscita a capire cosa volesse dire.
I pescatori, passata la sorpresa, chiesero se avrebbe mantenuto comunque la promessa, scegliendo uno di loro.
Lei annuì, affermando che aveva già adempiuto alla promessa fatta.
Al suo fianco, c’era il ragazzo da un occhio solo che tutti schernivano. Sembrava felice, anche se un po’ confuso.
Quando l’ultimo raggio di sole lo illuminò, essi videro che ora, egli non aveva più nemmeno quell'unico occhio.
Intonando il suo ultimo canto, la Sirena disse che la sua scelta era ricaduta su colui che nonostante avesse avuto un solo occhio, senza esitare aveva deciso di donarglielo, dimostrandole così di amarla più di se stesso.
Ora, l'avrebbe portato con se laddove gli occhi non servivano, nelle profondità del mare.
Infine, concluse dicendo che solo grazie a lui, aveva compreso esattamente perché gli uomini dicessero… che l’amore è cieco.
sabato 2 giugno 2007
Il sentiero dei ricordi
C'era una volta Lulù, una bimba molto fortunata che viveva con il babbo ed il suo cane, Blu.
Erano una famigliola felice ed abitavano vicino ad un bosco, lontano da ogni paese e città.
Non mancava niente a Lulù, perché Blu ed il babbo facevano a gara per renderla felice. Di giorno, giocava e correva nei prati con Blu, per poi cadere esausta la sera fra le braccia del babbo, ascoltando una fiaba vicino al focolare.
Per lei il mondo era composto solo da loro tre e nulla voleva di più.
Ma un giorno quel mondo perfetto si spezzò.
Vicino al focolare, in una fredda sera d'inverno, il babbo prese Lulù sulle sue gambe ed invece della solita fiaba, ne iniziò una diversa che lo vedeva protagonista.
"C'era una volta un sentiero nella foresta, ma chi lo imboccava, più indietro non tornava.
A nessuno era dato conoscere la meta di quella via. Tutti sapevano però che per quella strada ci s'incammina solo quando la propria ora s'avvicina.
Un giorno, un uomo decise di imboccare quel sentiero, un po' in anticipo rispetto al suo destino. Ma lo fece per il bene della sua bambina, perché lo ricordasse sempre come l'aveva conosciuto sino a qualche istante prima."
Infine concluse. "In quella strada stretta si passa solo uno per volta. Hai capito Lulù? Per questo non puoi venire anche tu."
Lulù non capiva dove il babbo dovesse andare ma di certo non se ne voleva distaccare. Quindi lo guardò negli occhi e gli disse:
"Babbo ma se la strada è stretta, vorrà dire che tu mi porterai tra le tue braccia ed io terrò fra le mie Blu. Così ci passeremo anche in tre! Noi saremo per te solo un piccolo fardello, ma così il tuo cammino sarà più gioioso… anche se un po' meno snello."
Il babbo sorrise, mentre una lacrima gli percorreva il viso. Lulù, quindi, gli chiese:
"Ma babbo sorridi o piangi? Non sai se essere felice o triste? Forse perché dovrai portare il nostro peso per avere un po' di compagnia?"
"Nessun fardello sarebbe per me così dolce da portare e mai lacrima solcherebbe il mio viso a quel pensiero. Sono triste perché per quella strada sarò da solo e non ci sarete più voi a tenermi compagnia."
"Ma babbo, quando tornerai?"
"Il sentiero che io prenderò mi porterà lontano, Lulù, così lontano che non tornerò indietro mai più.
Ma quel sentiero in realtà, ha un piccolo segreto. E' un sentiero magico. Solo ai bambini ed a chi, in cuor suo, è simile a loro, è dato vederlo. Percorrendo quel sentiero, chi tornerà come bambino, rivedrà tutta la sua vita come in un film. Quando lo vorrà, potrà parlare e stare di nuovo con le persone che ha amato di più."
Lulù ascoltava a bocca aperta.
"Tu sei fra questi, Lulù. Lo so. Noi ci rivedremo su quel sentiero dove staremo insieme tutte le volte che vorrai, anche se non potremo più stringerci. Ma ricorda: solo se lo desidererai veramente."
"Babbo questa favola non mi piace molto. Come s'intitola?"
"Non ha un titolo preciso. Se ne avesse uno, credo potrebbe essere… "il sentiero dei ricordi". Sì, proprio così."
"Buona notte babbo."
E per l'ultima volta Lulù, si accovacciò fra le sue braccia e sognò che il babbo s'incamminava verso il bosco. Quando vi giunse, vide un sentiero aprirsi davanti a lui, ed allora il Babbo si voltò sorridendo, e lo indicò a Lulù. Salutò con la mano e scomparve. Non lo rivide mai più.
Passarono gli anni e Lulù cercò quel sentiero nel bosco, dietro cespugli ed alberi, ma senza trovarlo mai.
Una notte fece un sogno, dove si rivedeva bambina in compagnia del babbo, seduta sulle sue ginocchia. Per gioco, scappava nel bosco e non riusciva più a tornare indietro. Sentiva la voce lontana del babbo che non poteva raggiungere. C'erano molti sentieri ma non sapeva quale fosse quello che la riportasse da lui. Così, chiuse gli occhi, si concentrò su quella voce lontana ed iniziò a camminare. Quando li riaprì, vide che il sentiero che aveva intrapreso, la stava riportando dritta da lui.
La mattina seguente decise di andare nel bosco a cercare quel sentiero allo stesso modo, anche nella realtà.
Si ritrovò di fronte ad un bivio e chiuse gli occhi. Stava tornando indietro con la memoria ai giorni più lontani e felici della sua vita. Quando le sembrò il momento, si lasciò andare ed iniziò a camminare con gli occhi ancora chiusi. Per un attimo, le parve di essere tornata bambina e di sentire la voce del babbo a pochi passi da lei. Riaprì gli occhi per paura di finire addosso a qualcosa e tutto sparì.
Si convinse a riprovare. Stavolta era decisa ad andare sino in fondo, costi quello che costi.
Ed accadde. Aveva gli occhi chiusi e correva a fianco del babbo che era fiero di lei. Sentiva la sua voce mentre le stava vicino. Infine, decise di provare a toccarlo e si avvicinò a lui per farsi stringere dalle sue braccia. Ma in quel momento qualcosa si frappose tra loro e si ritrovò per terra, ancora con gli occhi chiusi.
Era risoluta a non aprirli. Il babbo era lì con lei e la stava guardando. Poi, con un sorriso sulle labbra, le disse:
"Ti avevo detto che non avremmo potuto stringerci ancora, ricordi?"
Si avvicinò a lei e le sussurrò alcune parole, come quando da piccola si addormentava sulle sue ginocchia, vicino al focolare:
"Ciao Lulù, ce ne hai messo di tempo. Ma sapevo che un giorno ce l'avresti fatta. Sapevo che ti saresti lasciata andare per il sentiero dei ricordi senza freni e senza paure. Solo così ci saremmo rivisti. Ed eccoci qua. Sei grande ormai. Ed io sono fiero di te. Sarò sempre qui ad aspettarti se mi vorrai rivedere. Ricorda però che più crescerai e più difficile sarà per te abbandonare ogni remora e lasciarti andare di corsa, giù per il sentiero. Ora vado Lulù. Apri gli occhi e torna pure indietro. E' stato bello rivederti. A presto".
Quando riaprì gli occhi, si accorse che erano bagnati di lacrime. Stava per terra ai piedi di un tronco molto grande, ed era felice.
Camminando verso casa, saltellava e rideva a squarciagola come non le accadeva da tempo. Sentì in lontananza abbaiare il sua cane, Blu.
Il sentiero era terminato. Fu sul punto di voltarsi indietro per cercare di immortalarlo con un ultimo sguardo. Ma sapeva che sarebbe stato inutile. Quel sentiero non si poteva vedere ad occhi aperti, perché stava solo dentro di lei. Chiuse quindi gli occhi e ricominciò a correre.
Erano una famigliola felice ed abitavano vicino ad un bosco, lontano da ogni paese e città.
Non mancava niente a Lulù, perché Blu ed il babbo facevano a gara per renderla felice. Di giorno, giocava e correva nei prati con Blu, per poi cadere esausta la sera fra le braccia del babbo, ascoltando una fiaba vicino al focolare.
Per lei il mondo era composto solo da loro tre e nulla voleva di più.
Ma un giorno quel mondo perfetto si spezzò.
Vicino al focolare, in una fredda sera d'inverno, il babbo prese Lulù sulle sue gambe ed invece della solita fiaba, ne iniziò una diversa che lo vedeva protagonista.
"C'era una volta un sentiero nella foresta, ma chi lo imboccava, più indietro non tornava.
A nessuno era dato conoscere la meta di quella via. Tutti sapevano però che per quella strada ci s'incammina solo quando la propria ora s'avvicina.
Un giorno, un uomo decise di imboccare quel sentiero, un po' in anticipo rispetto al suo destino. Ma lo fece per il bene della sua bambina, perché lo ricordasse sempre come l'aveva conosciuto sino a qualche istante prima."
Infine concluse. "In quella strada stretta si passa solo uno per volta. Hai capito Lulù? Per questo non puoi venire anche tu."
Lulù non capiva dove il babbo dovesse andare ma di certo non se ne voleva distaccare. Quindi lo guardò negli occhi e gli disse:
"Babbo ma se la strada è stretta, vorrà dire che tu mi porterai tra le tue braccia ed io terrò fra le mie Blu. Così ci passeremo anche in tre! Noi saremo per te solo un piccolo fardello, ma così il tuo cammino sarà più gioioso… anche se un po' meno snello."
Il babbo sorrise, mentre una lacrima gli percorreva il viso. Lulù, quindi, gli chiese:
"Ma babbo sorridi o piangi? Non sai se essere felice o triste? Forse perché dovrai portare il nostro peso per avere un po' di compagnia?"
"Nessun fardello sarebbe per me così dolce da portare e mai lacrima solcherebbe il mio viso a quel pensiero. Sono triste perché per quella strada sarò da solo e non ci sarete più voi a tenermi compagnia."
"Ma babbo, quando tornerai?"
"Il sentiero che io prenderò mi porterà lontano, Lulù, così lontano che non tornerò indietro mai più.
Ma quel sentiero in realtà, ha un piccolo segreto. E' un sentiero magico. Solo ai bambini ed a chi, in cuor suo, è simile a loro, è dato vederlo. Percorrendo quel sentiero, chi tornerà come bambino, rivedrà tutta la sua vita come in un film. Quando lo vorrà, potrà parlare e stare di nuovo con le persone che ha amato di più."
Lulù ascoltava a bocca aperta.
"Tu sei fra questi, Lulù. Lo so. Noi ci rivedremo su quel sentiero dove staremo insieme tutte le volte che vorrai, anche se non potremo più stringerci. Ma ricorda: solo se lo desidererai veramente."
"Babbo questa favola non mi piace molto. Come s'intitola?"
"Non ha un titolo preciso. Se ne avesse uno, credo potrebbe essere… "il sentiero dei ricordi". Sì, proprio così."
"Buona notte babbo."
E per l'ultima volta Lulù, si accovacciò fra le sue braccia e sognò che il babbo s'incamminava verso il bosco. Quando vi giunse, vide un sentiero aprirsi davanti a lui, ed allora il Babbo si voltò sorridendo, e lo indicò a Lulù. Salutò con la mano e scomparve. Non lo rivide mai più.
Passarono gli anni e Lulù cercò quel sentiero nel bosco, dietro cespugli ed alberi, ma senza trovarlo mai.
Una notte fece un sogno, dove si rivedeva bambina in compagnia del babbo, seduta sulle sue ginocchia. Per gioco, scappava nel bosco e non riusciva più a tornare indietro. Sentiva la voce lontana del babbo che non poteva raggiungere. C'erano molti sentieri ma non sapeva quale fosse quello che la riportasse da lui. Così, chiuse gli occhi, si concentrò su quella voce lontana ed iniziò a camminare. Quando li riaprì, vide che il sentiero che aveva intrapreso, la stava riportando dritta da lui.
La mattina seguente decise di andare nel bosco a cercare quel sentiero allo stesso modo, anche nella realtà.
Si ritrovò di fronte ad un bivio e chiuse gli occhi. Stava tornando indietro con la memoria ai giorni più lontani e felici della sua vita. Quando le sembrò il momento, si lasciò andare ed iniziò a camminare con gli occhi ancora chiusi. Per un attimo, le parve di essere tornata bambina e di sentire la voce del babbo a pochi passi da lei. Riaprì gli occhi per paura di finire addosso a qualcosa e tutto sparì.
Si convinse a riprovare. Stavolta era decisa ad andare sino in fondo, costi quello che costi.
Ed accadde. Aveva gli occhi chiusi e correva a fianco del babbo che era fiero di lei. Sentiva la sua voce mentre le stava vicino. Infine, decise di provare a toccarlo e si avvicinò a lui per farsi stringere dalle sue braccia. Ma in quel momento qualcosa si frappose tra loro e si ritrovò per terra, ancora con gli occhi chiusi.
Era risoluta a non aprirli. Il babbo era lì con lei e la stava guardando. Poi, con un sorriso sulle labbra, le disse:
"Ti avevo detto che non avremmo potuto stringerci ancora, ricordi?"
Si avvicinò a lei e le sussurrò alcune parole, come quando da piccola si addormentava sulle sue ginocchia, vicino al focolare:
"Ciao Lulù, ce ne hai messo di tempo. Ma sapevo che un giorno ce l'avresti fatta. Sapevo che ti saresti lasciata andare per il sentiero dei ricordi senza freni e senza paure. Solo così ci saremmo rivisti. Ed eccoci qua. Sei grande ormai. Ed io sono fiero di te. Sarò sempre qui ad aspettarti se mi vorrai rivedere. Ricorda però che più crescerai e più difficile sarà per te abbandonare ogni remora e lasciarti andare di corsa, giù per il sentiero. Ora vado Lulù. Apri gli occhi e torna pure indietro. E' stato bello rivederti. A presto".
Quando riaprì gli occhi, si accorse che erano bagnati di lacrime. Stava per terra ai piedi di un tronco molto grande, ed era felice.
Camminando verso casa, saltellava e rideva a squarciagola come non le accadeva da tempo. Sentì in lontananza abbaiare il sua cane, Blu.
Il sentiero era terminato. Fu sul punto di voltarsi indietro per cercare di immortalarlo con un ultimo sguardo. Ma sapeva che sarebbe stato inutile. Quel sentiero non si poteva vedere ad occhi aperti, perché stava solo dentro di lei. Chiuse quindi gli occhi e ricominciò a correre.
sabato 5 maggio 2007
La Prescelta
Sesto San Giovanni. Sesta strada. Numero sei.
Leila è sulla porta di casa, cerca le chiavi nella borsetta, le infila nella serratura e nell'aprire si risveglia come da un lungo sonno.
Entrando in casa, di primo acchito, avverte una strana sensazione dentro di se ma non capisce da cosa possa derivare. Non sa che ore sono e guarda l'orologio. Sono le sei. Il suo pensiero è subito:
"Ma non dovrei essere qui a quest'ora..... perché sono rientrata adesso? Ah.....". Una forte fitta alla testa la coglie impreparata.
Si accascia per terra, con l'ansia che prende il sopravvento in lei. Rimane un po' così, rannicchiata sul parquet, con la mente che si rifiuta di prendere possesso del corpo. Lentamente si riprende. Con un gesto istintivo, afferra il telecomando ed accende la tv. Senza pensare, si dirige verso il frigorifero per bere un po' d'acqua, mentre scorrono le notizie in sottofondo, quando all'improvviso si blocca.
Il cronista aggiorna gli ascoltatori sui risultati sportivi della domenica. Un fremito la scuote.
"Impossibile! Oggi è venerdì!" Esclama.
Prende il cellulare e guarda sul visore. Sembra indicare proprio un lunedì. Corre allora verso la cassetta della posta. Il giornale è già arrivato. Lo prende e lo apre con le mani tremanti. Deve sedersi. Non c'è più dubbio. E' lunedì. Lunedì ...
Scorre inconsciamente le notizie di prima pagina, non le interessano ma è un gesto automatico, per non pensare, per non dover cercare di capire subito cosa sta succedendo. Le pare che la situazione sia più grande di quanto la sua mente riesca a contenere.
Fruga nella borsetta, cerca le sigarette, le trova.
Una seconda sorpresa la fa rabbrividire.
Quelle non sono le sue sigarette. Almeno, non sono quelle che prende di solito e non le risulta d'averle mai fumate. Cosa ci fanno nella sua borsetta? Molte domande si affacciano ora alla sua mente, tutte nello stesso istante. L'ansia si trasforma in angoscia. Prende in mano una sigaretta, fa per metterla in bocca istintivamente, ma poi si ferma e la guarda.
E se non fossero sue, chi avrebbe potuto metterle lì dentro? Ma soprattutto quando e dove? Butta la sigaretta sul tavolo, cammina avanti ed indietro dalla cucina all'ingresso, con la testa fra le mani. Si arresta.
"Bisogna mantenere la calma", si dice.
"Cosa potrebbe essere successo in questi tre giorni? Perché sembrano spariti dalla mia mente?"
Cerca, sforzandosi, di ricordare. La testa in questi tentativi le fa molto male. E' come se non riuscisse a spingersi facilmente in quella parte della sua mente in cui dimorano i ricordi.
Venerdì mattina, ecco, ora rammenta.
È in ritardo, si infila velocemente le cose che aveva addosso la sera prima, la gonna, la camicia, prende una giacca dall'armadio, quella nera in pelle.
Ritorna in sé. Ora si guarda, controlla di nuovo. Non c'è dubbio è ancora vestita come venerdì!
Torna alla cassetta della posta. Poco prima, per l'apprensione, non vi aveva fatto caso. Ci sono ancora i giornali dei giorni scorsi. Quindi non è mai tornata a casa da Venerdì.
Si stende sul letto e faticosamente tenta di riunire gli ultimi eventi che trova nella sua mente. Niente.
Il nulla è l'unica cosa che esiste nella sua testa da venerdì scorso. Sembra tutto inutile.
Si convince che la cosa migliore è fare una doccia per togliersi di dosso lo stress e calmarsi un attimo. Si spoglia della gonna e della camicetta in bagno, poi si guarda, incredula.
Non riconosce quel completo intimo che indossa. Non l'ha mai visto prima d'ora. Eppure lo indossa, è della sua misura, nero, di un tessuto sintetico. Ora l'angoscia le fa quasi mancare il respiro e con movimenti rapidi, forse per rimuovere con esso lo stesso pensiero, se lo toglie e lo butta lontano da lei.
Entra velocemente nella doccia e si getta sotto l'acqua fredda, cercando di non pensare, ma con il cuore in gola.
Compie i soliti gesti abitudinari, assillata da cosa quest'ultima novità potesse significare, quando una scoperta ben più disarmante sembra toglierle ogni eventuale dubbio su alcuni trascorsi di quei tre giorni. Passandosi una mano nel basso ventre, non trova il solito ostacolo villoso a fermare l'avanzata delle dita ed alla luce di un più completo esame, scopre che le sue intimità sono ora rasate, lisce, come quando era bambina.
Sente che sta sudando anche se è sotto l'acqua corrente. Immobile, nella doccia, cerca di comprendere la portata della cosa. L'unico pensiero che le sovviene, è l'incredulità di tutto questo che sembra un incubo ed invece, è proprio la realtà.
Nel tentativo d'immaginare cosa può esserle successo, la sua mente si rifiuta di pensare e preferisce delegare tutto al subconscio. Esce nuda ed ancora bagnata dalla doccia, si precipita alla ricerca delle sigarette e questa volta senza indugio, ne porta una alla bocca e l'accende, aspirando profondamente.
Poi, un ricordo le trafigge la mente.
Non è un ricordo di quei tre giorni, è di una settimana prima. Le sembra di aver letto un articolo sul giornale che parlava di una ragazza, di una storia che allora le pareva inverosimile e alla quale aveva dato poco peso, smettendo di leggere l'articolo in questione a metà.
Ora ricorda. Parlava di una ragazza scomparsa per pochi giorni. Era sparita, la polizia l'aveva cercata, sembrava fosse stata rapita ed invece al suo ritorno.....
Poi nulla, non ricorda, ma il giornale di quel giorno crede di averlo ancora nel ripostiglio. Si, certamente, deve esserci.
Si dirige fumando sempre più avidamente, verso il ripostiglio. Butta per terra i giornali, finché non lo trova. E' quello di un martedì, di una settimana prima. Lo apre con le mani ancora bagnate.
L'articolo si intitola: Ricompare dopo tre giorni, misteriosamente come era scomparsa.
Parla di una ragazza italo-americana come lei, di vent'anni, della quale la madre aveva denunciato la sparizione. La ragazza era tornata a casa da sola, in evidente stato confusionale ma la cosa più terrificante per Leila era che, come lei, non ricordava assolutamente nulla dei tre giorni precedenti e anche il suo nome era …Leila.
Si blocca per un attimo. Non può che continuare a leggere con trepidazione crescente.
Al suo ritorno, la ragazza aveva i capelli tagliati a zero e sulla schiena un piccolo tatuaggio in caratteri gotici, scritto al contrario, riportante una sorta di enigma gli inquirenti non erano riusciti a comprendere, e diceva: " dove 6, chi 6, come 6 ".
Leila fa un balzo all'indietro. Le manca il fiato.
Dopo qualche istante, mette una mano sulla schiena, dove avverte uno strano e persistente prurito.
Si pone davanti allo specchio.
Lentamente si volta.
C'è un tatuaggio che prima non c’era...
Prologhi:
http://prologhi.blogspot.com
Leila è sulla porta di casa, cerca le chiavi nella borsetta, le infila nella serratura e nell'aprire si risveglia come da un lungo sonno.
Entrando in casa, di primo acchito, avverte una strana sensazione dentro di se ma non capisce da cosa possa derivare. Non sa che ore sono e guarda l'orologio. Sono le sei. Il suo pensiero è subito:
"Ma non dovrei essere qui a quest'ora..... perché sono rientrata adesso? Ah.....". Una forte fitta alla testa la coglie impreparata.
Si accascia per terra, con l'ansia che prende il sopravvento in lei. Rimane un po' così, rannicchiata sul parquet, con la mente che si rifiuta di prendere possesso del corpo. Lentamente si riprende. Con un gesto istintivo, afferra il telecomando ed accende la tv. Senza pensare, si dirige verso il frigorifero per bere un po' d'acqua, mentre scorrono le notizie in sottofondo, quando all'improvviso si blocca.
Il cronista aggiorna gli ascoltatori sui risultati sportivi della domenica. Un fremito la scuote.
"Impossibile! Oggi è venerdì!" Esclama.
Prende il cellulare e guarda sul visore. Sembra indicare proprio un lunedì. Corre allora verso la cassetta della posta. Il giornale è già arrivato. Lo prende e lo apre con le mani tremanti. Deve sedersi. Non c'è più dubbio. E' lunedì. Lunedì ...
Scorre inconsciamente le notizie di prima pagina, non le interessano ma è un gesto automatico, per non pensare, per non dover cercare di capire subito cosa sta succedendo. Le pare che la situazione sia più grande di quanto la sua mente riesca a contenere.
Fruga nella borsetta, cerca le sigarette, le trova.
Una seconda sorpresa la fa rabbrividire.
Quelle non sono le sue sigarette. Almeno, non sono quelle che prende di solito e non le risulta d'averle mai fumate. Cosa ci fanno nella sua borsetta? Molte domande si affacciano ora alla sua mente, tutte nello stesso istante. L'ansia si trasforma in angoscia. Prende in mano una sigaretta, fa per metterla in bocca istintivamente, ma poi si ferma e la guarda.
E se non fossero sue, chi avrebbe potuto metterle lì dentro? Ma soprattutto quando e dove? Butta la sigaretta sul tavolo, cammina avanti ed indietro dalla cucina all'ingresso, con la testa fra le mani. Si arresta.
"Bisogna mantenere la calma", si dice.
"Cosa potrebbe essere successo in questi tre giorni? Perché sembrano spariti dalla mia mente?"
Cerca, sforzandosi, di ricordare. La testa in questi tentativi le fa molto male. E' come se non riuscisse a spingersi facilmente in quella parte della sua mente in cui dimorano i ricordi.
Venerdì mattina, ecco, ora rammenta.
È in ritardo, si infila velocemente le cose che aveva addosso la sera prima, la gonna, la camicia, prende una giacca dall'armadio, quella nera in pelle.
Ritorna in sé. Ora si guarda, controlla di nuovo. Non c'è dubbio è ancora vestita come venerdì!
Torna alla cassetta della posta. Poco prima, per l'apprensione, non vi aveva fatto caso. Ci sono ancora i giornali dei giorni scorsi. Quindi non è mai tornata a casa da Venerdì.
Si stende sul letto e faticosamente tenta di riunire gli ultimi eventi che trova nella sua mente. Niente.
Il nulla è l'unica cosa che esiste nella sua testa da venerdì scorso. Sembra tutto inutile.
Si convince che la cosa migliore è fare una doccia per togliersi di dosso lo stress e calmarsi un attimo. Si spoglia della gonna e della camicetta in bagno, poi si guarda, incredula.
Non riconosce quel completo intimo che indossa. Non l'ha mai visto prima d'ora. Eppure lo indossa, è della sua misura, nero, di un tessuto sintetico. Ora l'angoscia le fa quasi mancare il respiro e con movimenti rapidi, forse per rimuovere con esso lo stesso pensiero, se lo toglie e lo butta lontano da lei.
Entra velocemente nella doccia e si getta sotto l'acqua fredda, cercando di non pensare, ma con il cuore in gola.
Compie i soliti gesti abitudinari, assillata da cosa quest'ultima novità potesse significare, quando una scoperta ben più disarmante sembra toglierle ogni eventuale dubbio su alcuni trascorsi di quei tre giorni. Passandosi una mano nel basso ventre, non trova il solito ostacolo villoso a fermare l'avanzata delle dita ed alla luce di un più completo esame, scopre che le sue intimità sono ora rasate, lisce, come quando era bambina.
Sente che sta sudando anche se è sotto l'acqua corrente. Immobile, nella doccia, cerca di comprendere la portata della cosa. L'unico pensiero che le sovviene, è l'incredulità di tutto questo che sembra un incubo ed invece, è proprio la realtà.
Nel tentativo d'immaginare cosa può esserle successo, la sua mente si rifiuta di pensare e preferisce delegare tutto al subconscio. Esce nuda ed ancora bagnata dalla doccia, si precipita alla ricerca delle sigarette e questa volta senza indugio, ne porta una alla bocca e l'accende, aspirando profondamente.
Poi, un ricordo le trafigge la mente.
Non è un ricordo di quei tre giorni, è di una settimana prima. Le sembra di aver letto un articolo sul giornale che parlava di una ragazza, di una storia che allora le pareva inverosimile e alla quale aveva dato poco peso, smettendo di leggere l'articolo in questione a metà.
Ora ricorda. Parlava di una ragazza scomparsa per pochi giorni. Era sparita, la polizia l'aveva cercata, sembrava fosse stata rapita ed invece al suo ritorno.....
Poi nulla, non ricorda, ma il giornale di quel giorno crede di averlo ancora nel ripostiglio. Si, certamente, deve esserci.
Si dirige fumando sempre più avidamente, verso il ripostiglio. Butta per terra i giornali, finché non lo trova. E' quello di un martedì, di una settimana prima. Lo apre con le mani ancora bagnate.
L'articolo si intitola: Ricompare dopo tre giorni, misteriosamente come era scomparsa.
Parla di una ragazza italo-americana come lei, di vent'anni, della quale la madre aveva denunciato la sparizione. La ragazza era tornata a casa da sola, in evidente stato confusionale ma la cosa più terrificante per Leila era che, come lei, non ricordava assolutamente nulla dei tre giorni precedenti e anche il suo nome era …Leila.
Si blocca per un attimo. Non può che continuare a leggere con trepidazione crescente.
Al suo ritorno, la ragazza aveva i capelli tagliati a zero e sulla schiena un piccolo tatuaggio in caratteri gotici, scritto al contrario, riportante una sorta di enigma gli inquirenti non erano riusciti a comprendere, e diceva: " dove 6, chi 6, come 6 ".
Leila fa un balzo all'indietro. Le manca il fiato.
Dopo qualche istante, mette una mano sulla schiena, dove avverte uno strano e persistente prurito.
Si pone davanti allo specchio.
Lentamente si volta.
C'è un tatuaggio che prima non c’era...
Prologhi:
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giovedì 3 maggio 2007
Il Mostro con le sporte
Gino era un bambino piccolino, e per la sua età andava in bicicletta alla grande.
Se ci si metteva, nessuno riusciva a stargli dietro. Amava andare veloce, e sentire il vento che gli fischiava nelle orecchie, fino a quando non arrivava a coprire ogni altro rumore. In sella alla sua bicicletta si lasciava tutto alle spalle, amici, pensieri…e paure.
Ma non sempre gli riusciva di sfuggire a tutto.
Da qualche tempo infatti, c’era un mostro che si aggirava per le vie del paese su una bicicletta scassata. Aveva quattro sacchetti di nylon appesi ai manubri, ma nessuno sapeva con certezza cosa ci fosse dentro.
Alcuni dicevano che c’erano le teste dei bambini che era riuscito a prendere di sorpresa, girando in bicicletta.
Nessuno aveva le prove, eppure tutti gli amici di Gino ci credevano.
Assomigliava ad un vecchio barbone, ed emetteva sempre dei suoni strani, mai uditi prima da Gino. Erano suoni inquietanti, a metà tra deliri e lamenti.
Lui girava sempre da solo e nessuno sapeva dove dormisse o vivesse.
Ma c’era chi non lo temeva.
Il più grande tra i ragazzi del gruppo si avvicinava spesso a poche pedalate dal mostro. E quando gli stava ad un passo, lo provocava e si faceva inseguire per chilometri, trascinandosi dietro tutto il gruppo dei bambini del paese che urlavano terrorizzati.
Finché una volta sul più bello, mentre l’ennesima fuga di gruppo era iniziata, qualcuno sbilanciò Gino che finì a terra. E fu raggiunto dal mostro.
Quando si fermò con la bici sopra di lui, l’ombra del mostro lo ricoprì.
Mentre era steso a terra, sopra la sua testa c’erano quelle quattro borse di nylon che oscillavano avanti e indietro. Gino ebbe l’impressione di vederci dentro qualcosa di familiare.
Infine ebbe il coraggio di alzare gli occhi, e guardarlo.
Il mostro era solo un uomo molto vecchio. Le sue urla inquietanti erano il pianto triste di un sordomuto che non riusciva a dirgli che non voleva fargli niente di male. E che i bambini non dovevano avere paura di lui. Dai suoi occhi scendevano lacrime, mentre la bocca si contorceva come quella di un bimbo, distrutto da un dolore più grande di lui.
Gino capì di essere la causa di quel pianto, lui assieme a tutti i suoi amici. Avevano fatto di lui ciò che non era. Questo trasformò la sua paura in compassione.
Da quel giorno Gino iniziò ad accompagnare il vecchio in bicicletta per dei brevi tratti nelle vie del paese, in modo che tutti lo vedessero. Quando stava con lui il vecchio sorrideva e non aveva proprio più niente a che vedere con il mostro di prima. Giorno dopo giorno, forse per curiosità, molti altri bambini si aggiunsero ed il gruppo attorno al vecchio divenne numeroso. Da quel giorno fu sempre il benvenuto in quel paesino, che divenne un po’ la sua famiglia.
E così Gino si rese conto che i mostri forse non esistono. Sono le paure dei bambini a crearli, ma a volte basta così poco per trasformarli in qualcosa di migliore.
Link sul tema:
http://www.dienneti.it/percorsi/favole_fiabe.htm
Se ci si metteva, nessuno riusciva a stargli dietro. Amava andare veloce, e sentire il vento che gli fischiava nelle orecchie, fino a quando non arrivava a coprire ogni altro rumore. In sella alla sua bicicletta si lasciava tutto alle spalle, amici, pensieri…e paure.
Ma non sempre gli riusciva di sfuggire a tutto.
Da qualche tempo infatti, c’era un mostro che si aggirava per le vie del paese su una bicicletta scassata. Aveva quattro sacchetti di nylon appesi ai manubri, ma nessuno sapeva con certezza cosa ci fosse dentro.
Alcuni dicevano che c’erano le teste dei bambini che era riuscito a prendere di sorpresa, girando in bicicletta.
Nessuno aveva le prove, eppure tutti gli amici di Gino ci credevano.
Assomigliava ad un vecchio barbone, ed emetteva sempre dei suoni strani, mai uditi prima da Gino. Erano suoni inquietanti, a metà tra deliri e lamenti.
Lui girava sempre da solo e nessuno sapeva dove dormisse o vivesse.
Ma c’era chi non lo temeva.
Il più grande tra i ragazzi del gruppo si avvicinava spesso a poche pedalate dal mostro. E quando gli stava ad un passo, lo provocava e si faceva inseguire per chilometri, trascinandosi dietro tutto il gruppo dei bambini del paese che urlavano terrorizzati.
Finché una volta sul più bello, mentre l’ennesima fuga di gruppo era iniziata, qualcuno sbilanciò Gino che finì a terra. E fu raggiunto dal mostro.
Quando si fermò con la bici sopra di lui, l’ombra del mostro lo ricoprì.
Mentre era steso a terra, sopra la sua testa c’erano quelle quattro borse di nylon che oscillavano avanti e indietro. Gino ebbe l’impressione di vederci dentro qualcosa di familiare.
Infine ebbe il coraggio di alzare gli occhi, e guardarlo.
Il mostro era solo un uomo molto vecchio. Le sue urla inquietanti erano il pianto triste di un sordomuto che non riusciva a dirgli che non voleva fargli niente di male. E che i bambini non dovevano avere paura di lui. Dai suoi occhi scendevano lacrime, mentre la bocca si contorceva come quella di un bimbo, distrutto da un dolore più grande di lui.
Gino capì di essere la causa di quel pianto, lui assieme a tutti i suoi amici. Avevano fatto di lui ciò che non era. Questo trasformò la sua paura in compassione.
Da quel giorno Gino iniziò ad accompagnare il vecchio in bicicletta per dei brevi tratti nelle vie del paese, in modo che tutti lo vedessero. Quando stava con lui il vecchio sorrideva e non aveva proprio più niente a che vedere con il mostro di prima. Giorno dopo giorno, forse per curiosità, molti altri bambini si aggiunsero ed il gruppo attorno al vecchio divenne numeroso. Da quel giorno fu sempre il benvenuto in quel paesino, che divenne un po’ la sua famiglia.
E così Gino si rese conto che i mostri forse non esistono. Sono le paure dei bambini a crearli, ma a volte basta così poco per trasformarli in qualcosa di migliore.
Link sul tema:
http://www.dienneti.it/percorsi/favole_fiabe.htm
martedì 1 maggio 2007
Arturo il duro
Nel piccolo orfanotrofio di Villafranca, ai bambini dispettosi le suore non facevano guardare la TV per un mese o anche più. Ma ad Arturo questo non importava, dato che lui la TV oramai non la guardava più. Infatti da quando babbo e mamma se n’erano andati lassù in cielo, lui aveva chiuso gli occhi e diceva che li avrebbe riaperti solo quando fossero tornati giù.
Quando gli chiedevano perché, lui rispondeva che non c’era niente di speciale da vedere in giro. E questo dal momento che secondo lui, niente poteva essere meglio di mamma e papà.
Finora, nessuno era riuscito a convincerlo del contrario.
Ma un giorno mentre era da solo in camera sua, sentì dietro di se una voce che diceva di aver visto mamma e papà, lassù in cielo.
Arturo chiese chi fosse che stava parlando, e la voce gli rispose che era un angelo mandato proprio dai suoi genitori, per dirgli una cosa molto importante.
Arturo rispose che gli angeli non esistono, e che se mamma e papà volevano salutarlo, potevano venire loro invece di mandare un altro.
L’Angelo disse che era la prima volta che gli capitava un bambino così, ma bastava che lui aprisse gli occhi, e sicuramente gli avrebbe creduto.
Arturo non voleva saperne e rispose che, come aveva già detto, gli occhi li avrebbe aperti solo quando fossero tornati mamma e papà.
L’Angelo era un po’ in difficoltà. Così disse che sarebbe tornato un’altra notte.
E così fece. Tornò molte notti, ma Arturo continuava a ripetere la solita storia.
Finché una notte l’Angelo ricomparve e disse che questa volta non era solo. C’erano con lui anche la mamma ed il papà di Arturo. Erano venuti con un permesso straordinario proprio perché Arturo riaprisse finalmente gli occhi, ma non potevano parlagli.
Arturo rispose che non ci credeva per niente e che prima di aprire gli occhi voleva delle garanzie.
L’Angelo disse ad Arturo che non avevano molto tempo e che se non si sbrigava ad aprire gli occhi, non li avrebbe rivisti mai più.
Arturo ci pensò un po’ su prima di rispondere.
Alla fine, ringraziò l’Angelo, la mamma ed il papà per essere venuti, e disse loro che vederli per pochi istanti sarebbe stato solo un secondo addio. E che preferiva quindi non aprirli, a meno che non fossero rimasti con lui per sempre.
L’Angelo disse che questo sarebbe stato possibile solo quando fosse giunto anche per lui il momento di andare in paradiso, e che per ora doveva accontentarsi di questa occasione più unica che rara.
Ma Arturo non si era mai accontentato. E come molti bambini, anche lui voleva tutto e subito. Li lasciò quindi andare e riaprì gli occhi solo qualche giorno dopo, mentre, salito sul tetto dell’orfanotrofio, tentava di imitare un angelo, in volo verso il paradiso.
Sul tema suggeriamo:
http://www.prodottiunicef.it/privati/home.asp?referer=
http://www.orphanage.kiev.ua/pages_html/ital/orphan_life.html
Quando gli chiedevano perché, lui rispondeva che non c’era niente di speciale da vedere in giro. E questo dal momento che secondo lui, niente poteva essere meglio di mamma e papà.
Finora, nessuno era riuscito a convincerlo del contrario.
Ma un giorno mentre era da solo in camera sua, sentì dietro di se una voce che diceva di aver visto mamma e papà, lassù in cielo.
Arturo chiese chi fosse che stava parlando, e la voce gli rispose che era un angelo mandato proprio dai suoi genitori, per dirgli una cosa molto importante.
Arturo rispose che gli angeli non esistono, e che se mamma e papà volevano salutarlo, potevano venire loro invece di mandare un altro.
L’Angelo disse che era la prima volta che gli capitava un bambino così, ma bastava che lui aprisse gli occhi, e sicuramente gli avrebbe creduto.
Arturo non voleva saperne e rispose che, come aveva già detto, gli occhi li avrebbe aperti solo quando fossero tornati mamma e papà.
L’Angelo era un po’ in difficoltà. Così disse che sarebbe tornato un’altra notte.
E così fece. Tornò molte notti, ma Arturo continuava a ripetere la solita storia.
Finché una notte l’Angelo ricomparve e disse che questa volta non era solo. C’erano con lui anche la mamma ed il papà di Arturo. Erano venuti con un permesso straordinario proprio perché Arturo riaprisse finalmente gli occhi, ma non potevano parlagli.
Arturo rispose che non ci credeva per niente e che prima di aprire gli occhi voleva delle garanzie.
L’Angelo disse ad Arturo che non avevano molto tempo e che se non si sbrigava ad aprire gli occhi, non li avrebbe rivisti mai più.
Arturo ci pensò un po’ su prima di rispondere.
Alla fine, ringraziò l’Angelo, la mamma ed il papà per essere venuti, e disse loro che vederli per pochi istanti sarebbe stato solo un secondo addio. E che preferiva quindi non aprirli, a meno che non fossero rimasti con lui per sempre.
L’Angelo disse che questo sarebbe stato possibile solo quando fosse giunto anche per lui il momento di andare in paradiso, e che per ora doveva accontentarsi di questa occasione più unica che rara.
Ma Arturo non si era mai accontentato. E come molti bambini, anche lui voleva tutto e subito. Li lasciò quindi andare e riaprì gli occhi solo qualche giorno dopo, mentre, salito sul tetto dell’orfanotrofio, tentava di imitare un angelo, in volo verso il paradiso.
Sul tema suggeriamo:
http://www.prodottiunicef.it/privati/home.asp?referer=
http://www.orphanage.kiev.ua/pages_html/ital/orphan_life.html
lunedì 30 aprile 2007
Il cappello di feltro
Sono nato più di cento anni fa, nel 1900, e forse nella mia lunga vita ho visto più cose di quante avrei dovuto vederne, anche perché in realtà, ho vissuto almeno due volte.
I miei primi 45 anni li ho passati lassù, in cima alla testa di una splendida signora. Ricordo che mi accarezzava, mi lavava, mi pettinava e mi metteva sempre un sacco di cappelli colorati. Ma io sono sempre stato un po’ invidioso. In fondo ero solo un capello di una donna, invece mi sarebbe proprio piaciuto essere un bel.. cappello!
Primo, perché ho sempre desiderato essere al centro dell’attenzione, in un modo o nell’altro. Secondo, perché i cappelli fra di loro vanno sempre d’accordo, al contrario di noi capelli, purtroppo.
Per quanto mi riguarda io non ho mai avuto niente da ridire con gli altri capelli, che fossero rossi, biondi, o anche grigi.
Ma un giorno i rapporti cominciarono a peggiorare. I biondi si misero in testa di essere migliori degli altri. E tutti quelli che avevano i capelli neri come me, furono messi da quelli che avevano i capelli biondi, dentro ad un campo angusto e recintato. Da allora i biondi mi sono sempre stati poco simpatici, anche perché cominciarono a darsi molte arie, e a farci pure i dispetti.
Arrivarono perfino a tagliarci, e non c’è niente di peggio per un capello che essere tagliato. Ci tagliarono così corti che sembravamo dei capelli da uomo.
E’ stato proprio un brutto periodo, tanto che ad un certo punto desiderai perfino di essere nato biondo, un po’ per invidia forse, un po’ per capire cosa si provava a stare dalla parte dei biondi.
Già in parecchi erano passati coi biondi. Forse per stare un po’ meglio, ma non erano certo ben visti dai propri ex compagni, forse un po’ invidiosi anche loro. In quel periodo tutti avrebbero voluto essere nati biondi.
Un giorno, il mio desiderio fu esaudito, e toccò a me. Ammetto di essere stato un po’ fortunato nella mia lunga vita, infatti i miei desideri si sono sempre avverati, seppur nelle forme più svariate…
Era un giorno d’inverno del 1945, e dissero che ci avrebbero portati in un posto dove ci sarebbe stata più libertà, ed infatti all’entrata c’era perfino un cartello che diceva che lavorare li dentro faceva sentire molto più liberi.
Non so cosa sia andato storto, ma proprio quel giorno così fortunato, mi son sentito male, quasi fossi morto all’improvviso. Da allora non ho più rivisto la bella signora mora sulla quale ero stato per 45 anni. Io fui messo insieme ai capelli di migliaia di altre persone, come se d’un tratto avessero deciso di tagliarsi tutti i capelli a zero.
Ma non era che l’inizio. Invece di essere buttati nella spazzatura, finimmo in un’industria, dove tramite un processo un po’ doloroso, fummo mischiati e compattati l’uno con l’altro, ed alla fine dissero che eravamo diventati una cosa nuova, chiamata “feltro”. Io avevo sentito parlare di questo materiale fatto con peli di animali ed altro, ma non pensavo si potesse fare anche con i capelli. Questi uomini hanno sempre un sacco di fantasia.
E men che meno immaginai che assieme a molti altri capelli, saremmo diventati addirittura un cappello, proprio come avevo sempre sognato. Un bel cappello di Feltro grigio con un’aquila ed una croce uncinata davanti! Un altro colpo di fortuna.
Doveva essere veramente carino da vedere, perché molti altri uomini che non lo portavano, alla sua vista rimanevano sempre impietriti e senza parole.
A quei tempi ero un po’ confuso. Stavo sempre allo stesso posto di prima, vale a dire su una testa, ma potevo passare da una all’altra con estrema facilità. Quello era un momento in cui si cambiava testa molto spesso. C’era infatti una cosa che gli uomini chiamavano “guerra” e quando uno cadeva per terra, io finivo sulla testa di un altro.
Ma il fatto più curioso è che stavo sempre sulla testa di quelli con i capelli biondi, e così, avevo visto avverarsi anche questo desiderio, ovvero provare che gusto c’era ad essere biondo. Tuttavia, rimasi un po’ deluso, perché questi biondi non mi sembravano un gran che. Anzi, i loro bei capelli finivano sotto terra, mentre io ero diventato uno splendido cappello di Feltro. Insomma, non era poi questa gran fortuna essere nati biondi.
Un bel giorno mi attaccarono sopra delle mostrine nuove ed un paio di lettere sibilline, e da allora diventai un cappello davvero importante. Tutti mi portavano rispetto, anche i biondi, e mi salutavano sbracciandosi a più non posso. Fu proprio una bella rivincita.
Poche settimane più tardi, andai in gita in una città enorme dove c’erano un sacco di aquile e di croci come quelle che portavo io. Sentivo che dicevano che li c’era l’uomo più importante di tutti, niente poco di meno che il grande capo di tutti i biondi!
Io ero molto emozionato, mi immaginavo di vedere un grande uomo con i capelli lunghi e biondi, come l’oro! Ma quando lo vidi provai un’enorme sorpresa. Il capo dei biondi aveva i capelli neri esattamente come me! Non ci stavo capendo più niente.
Il grande capo, che in realtà era piuttosto piccolo, sembrò eccitarsi come un matto quando gli dissero che il cappello che gli stavano mostrando, era fatto con i capelli di quelli mori come lui, e volle tenermi con se a tutti i costi. Io lo capivo benissimo poverino, chissà come si sentiva solo, moro com’era, in mezzo a tutti quei biondi. E così tornavo a stare sulla testa di qualcuno con i capelli neri come me, almeno ci saremmo tenuti compagnia.
Le giornate con lui erano molto noiose, passava tutto il tempo a parlare di come far diventare tutti biondi, cercando inoltre di eliminare quelli che non lo erano.
A quanto pare, gli piacevano di più i biondi. Forse non si rendeva conto che di questo passo sarebbe presto rimasto l’unico con i capelli scuri.
Era talmente convinto delle sue idee che una sera, mentre eravamo da soli in uno stanzino dentro ad un bunker, forse sicuro che ormai non ci fossero altri con i capelli scuri in circolazione, pensò di completare l’opera togliendosi di mezzo pure lui. Prese la pistola e si sparò.
Rimasi in un armadio per parecchio tempo. E quando uscii, vidi che in realtà c’erano ancora in giro molti uomini con i capelli scuri. A quanto pare il grande capo dei biondi, aveva fatto male i conti.
Io intanto stavo in un museo ma avrei tanto voluto essere messo in una di quelle vetrine dove la mia bella signora mi portava quando ero giovane, a provare tutti quei bei cappelli.
E dopo qualche tempo, anche questa volta il mio desiderio fu esaudito.
Un bel giorno mi riportarono nel posto dove c’era scritto che lavorare li dentro ti faceva sentire più libero, e fui messo in una bella vetrina sopra un manichino, vicino a milioni di altri capelli, proprio com’ero io un tempo. Ce n’erano talmente tanti che riempivano una stanza intera.
E così, sono di nuovo al centro dell’attenzione. Ogni giorno ci sono migliaia di visitatori che mi guardano, e tutti sembrano increduli quando scoprono che da una ciocca di capelli si possa ricavare un cappello così bello.
Tuttavia, nessuno pare sia intenzionato ad acquistarmi. Sembra infatti che non vadano più tanto di moda i cappelli fatti con i capelli degli altri.
Link sul tema... Film "La strada di Levi"
http://www.mymovies.it/dizionario/recensione.asp?id=43680
I miei primi 45 anni li ho passati lassù, in cima alla testa di una splendida signora. Ricordo che mi accarezzava, mi lavava, mi pettinava e mi metteva sempre un sacco di cappelli colorati. Ma io sono sempre stato un po’ invidioso. In fondo ero solo un capello di una donna, invece mi sarebbe proprio piaciuto essere un bel.. cappello!
Primo, perché ho sempre desiderato essere al centro dell’attenzione, in un modo o nell’altro. Secondo, perché i cappelli fra di loro vanno sempre d’accordo, al contrario di noi capelli, purtroppo.
Per quanto mi riguarda io non ho mai avuto niente da ridire con gli altri capelli, che fossero rossi, biondi, o anche grigi.
Ma un giorno i rapporti cominciarono a peggiorare. I biondi si misero in testa di essere migliori degli altri. E tutti quelli che avevano i capelli neri come me, furono messi da quelli che avevano i capelli biondi, dentro ad un campo angusto e recintato. Da allora i biondi mi sono sempre stati poco simpatici, anche perché cominciarono a darsi molte arie, e a farci pure i dispetti.
Arrivarono perfino a tagliarci, e non c’è niente di peggio per un capello che essere tagliato. Ci tagliarono così corti che sembravamo dei capelli da uomo.
E’ stato proprio un brutto periodo, tanto che ad un certo punto desiderai perfino di essere nato biondo, un po’ per invidia forse, un po’ per capire cosa si provava a stare dalla parte dei biondi.
Già in parecchi erano passati coi biondi. Forse per stare un po’ meglio, ma non erano certo ben visti dai propri ex compagni, forse un po’ invidiosi anche loro. In quel periodo tutti avrebbero voluto essere nati biondi.
Un giorno, il mio desiderio fu esaudito, e toccò a me. Ammetto di essere stato un po’ fortunato nella mia lunga vita, infatti i miei desideri si sono sempre avverati, seppur nelle forme più svariate…
Era un giorno d’inverno del 1945, e dissero che ci avrebbero portati in un posto dove ci sarebbe stata più libertà, ed infatti all’entrata c’era perfino un cartello che diceva che lavorare li dentro faceva sentire molto più liberi.
Non so cosa sia andato storto, ma proprio quel giorno così fortunato, mi son sentito male, quasi fossi morto all’improvviso. Da allora non ho più rivisto la bella signora mora sulla quale ero stato per 45 anni. Io fui messo insieme ai capelli di migliaia di altre persone, come se d’un tratto avessero deciso di tagliarsi tutti i capelli a zero.
Ma non era che l’inizio. Invece di essere buttati nella spazzatura, finimmo in un’industria, dove tramite un processo un po’ doloroso, fummo mischiati e compattati l’uno con l’altro, ed alla fine dissero che eravamo diventati una cosa nuova, chiamata “feltro”. Io avevo sentito parlare di questo materiale fatto con peli di animali ed altro, ma non pensavo si potesse fare anche con i capelli. Questi uomini hanno sempre un sacco di fantasia.
E men che meno immaginai che assieme a molti altri capelli, saremmo diventati addirittura un cappello, proprio come avevo sempre sognato. Un bel cappello di Feltro grigio con un’aquila ed una croce uncinata davanti! Un altro colpo di fortuna.
Doveva essere veramente carino da vedere, perché molti altri uomini che non lo portavano, alla sua vista rimanevano sempre impietriti e senza parole.
A quei tempi ero un po’ confuso. Stavo sempre allo stesso posto di prima, vale a dire su una testa, ma potevo passare da una all’altra con estrema facilità. Quello era un momento in cui si cambiava testa molto spesso. C’era infatti una cosa che gli uomini chiamavano “guerra” e quando uno cadeva per terra, io finivo sulla testa di un altro.
Ma il fatto più curioso è che stavo sempre sulla testa di quelli con i capelli biondi, e così, avevo visto avverarsi anche questo desiderio, ovvero provare che gusto c’era ad essere biondo. Tuttavia, rimasi un po’ deluso, perché questi biondi non mi sembravano un gran che. Anzi, i loro bei capelli finivano sotto terra, mentre io ero diventato uno splendido cappello di Feltro. Insomma, non era poi questa gran fortuna essere nati biondi.
Un bel giorno mi attaccarono sopra delle mostrine nuove ed un paio di lettere sibilline, e da allora diventai un cappello davvero importante. Tutti mi portavano rispetto, anche i biondi, e mi salutavano sbracciandosi a più non posso. Fu proprio una bella rivincita.
Poche settimane più tardi, andai in gita in una città enorme dove c’erano un sacco di aquile e di croci come quelle che portavo io. Sentivo che dicevano che li c’era l’uomo più importante di tutti, niente poco di meno che il grande capo di tutti i biondi!
Io ero molto emozionato, mi immaginavo di vedere un grande uomo con i capelli lunghi e biondi, come l’oro! Ma quando lo vidi provai un’enorme sorpresa. Il capo dei biondi aveva i capelli neri esattamente come me! Non ci stavo capendo più niente.
Il grande capo, che in realtà era piuttosto piccolo, sembrò eccitarsi come un matto quando gli dissero che il cappello che gli stavano mostrando, era fatto con i capelli di quelli mori come lui, e volle tenermi con se a tutti i costi. Io lo capivo benissimo poverino, chissà come si sentiva solo, moro com’era, in mezzo a tutti quei biondi. E così tornavo a stare sulla testa di qualcuno con i capelli neri come me, almeno ci saremmo tenuti compagnia.
Le giornate con lui erano molto noiose, passava tutto il tempo a parlare di come far diventare tutti biondi, cercando inoltre di eliminare quelli che non lo erano.
A quanto pare, gli piacevano di più i biondi. Forse non si rendeva conto che di questo passo sarebbe presto rimasto l’unico con i capelli scuri.
Era talmente convinto delle sue idee che una sera, mentre eravamo da soli in uno stanzino dentro ad un bunker, forse sicuro che ormai non ci fossero altri con i capelli scuri in circolazione, pensò di completare l’opera togliendosi di mezzo pure lui. Prese la pistola e si sparò.
Rimasi in un armadio per parecchio tempo. E quando uscii, vidi che in realtà c’erano ancora in giro molti uomini con i capelli scuri. A quanto pare il grande capo dei biondi, aveva fatto male i conti.
Io intanto stavo in un museo ma avrei tanto voluto essere messo in una di quelle vetrine dove la mia bella signora mi portava quando ero giovane, a provare tutti quei bei cappelli.
E dopo qualche tempo, anche questa volta il mio desiderio fu esaudito.
Un bel giorno mi riportarono nel posto dove c’era scritto che lavorare li dentro ti faceva sentire più libero, e fui messo in una bella vetrina sopra un manichino, vicino a milioni di altri capelli, proprio com’ero io un tempo. Ce n’erano talmente tanti che riempivano una stanza intera.
E così, sono di nuovo al centro dell’attenzione. Ogni giorno ci sono migliaia di visitatori che mi guardano, e tutti sembrano increduli quando scoprono che da una ciocca di capelli si possa ricavare un cappello così bello.
Tuttavia, nessuno pare sia intenzionato ad acquistarmi. Sembra infatti che non vadano più tanto di moda i cappelli fatti con i capelli degli altri.
Link sul tema... Film "La strada di Levi"
http://www.mymovies.it/dizionario/recensione.asp?id=43680
mercoledì 25 aprile 2007
Tutto per colpa degli sms…
Solito grande litigio.
Ma la colpa di chi era?
Come spesso accade, era difficile dirlo. Lei reclamava almeno un sms al giorno. Lui disse che così si sarebbe sentito con un telecomando nel culo. Non poteva certo fare tutto quello che voleva lei!
Un sms al giorno, per dirle cosa? Come stai ?! Cosa fai? Ma cosa diavolo è poi questo sms?
Lui non aveva mai avuto il “cellulare”. Un telefono portabile pronto a suonare in ogni momento.
Già rompeva le balle quello di casa, ed ora c’era pure da portarsi dietro l’altro, per poi dare l’impressione di parlare da soli per strada.
Lui non era un tipo all’antica. Semplicemente era stato dentro per più di dieci anni e uscendo aveva scoperto che c’era questa novità.
L’aveva già visto in tv. Ma da dentro la cella il mondo esterno appariva ovattato, un’immagine irreale, maggiormente vicina alla fantasia mano a mano che passavano gli anni. E tutti questi nuovi aggeggi sembravano usciti da un film di fantascienza.
“Se non mi mandi un sms almeno una volta al giorno, vuol dire che non mi pensi!” Aveva detto lei.
Si erano visti la sera prima… si sarebbero rivisti l’indomani, quindi oggi lei poteva anche vivere senza avere sue notizie, o no?
“Ovviamente no!” Replicò lei.
Mentre stava dentro, sognava solo due cose: le donne e la libertà. Adesso si era reso conto che poteva averne solo una alla volta. Questa storia d’amore era una nuova prigionia. Avere il cellulare era come essere agli arresti domiciliari: dovevi essere sempre reperibile.
Al suo compleanno lei gli regalò un videofonino. Così adesso poteva vedere anche dove stava. Gli sembrava di essere al Grande Fratello, l’unica popolazione carceraria che si dispera quando deve lasciare le quattro mura. Dopo due giorni disse che gli era caduto nel cesso mentre si tirava su le brache.
Da quel giorno sembrò che anche la loro storia d’amore fosse finita laggiù con il videofonino.
Tutto per colpa degli sms.
Un giorno ne ricevette uno con una splendida frase d’amore, ma non era per lui, era per un altro. E c’era pure scritto dove lei l’avrebbe aspettato.
E fu così che dopo tredici anni per tentato omicidio, se ne fece altri trenta per omicidio riuscito.
Trent’anni spesi a pensare che è stato tutto colpa degli sms.
http://blog.sms-pronti.com/
Ma la colpa di chi era?
Come spesso accade, era difficile dirlo. Lei reclamava almeno un sms al giorno. Lui disse che così si sarebbe sentito con un telecomando nel culo. Non poteva certo fare tutto quello che voleva lei!
Un sms al giorno, per dirle cosa? Come stai ?! Cosa fai? Ma cosa diavolo è poi questo sms?
Lui non aveva mai avuto il “cellulare”. Un telefono portabile pronto a suonare in ogni momento.
Già rompeva le balle quello di casa, ed ora c’era pure da portarsi dietro l’altro, per poi dare l’impressione di parlare da soli per strada.
Lui non era un tipo all’antica. Semplicemente era stato dentro per più di dieci anni e uscendo aveva scoperto che c’era questa novità.
L’aveva già visto in tv. Ma da dentro la cella il mondo esterno appariva ovattato, un’immagine irreale, maggiormente vicina alla fantasia mano a mano che passavano gli anni. E tutti questi nuovi aggeggi sembravano usciti da un film di fantascienza.
“Se non mi mandi un sms almeno una volta al giorno, vuol dire che non mi pensi!” Aveva detto lei.
Si erano visti la sera prima… si sarebbero rivisti l’indomani, quindi oggi lei poteva anche vivere senza avere sue notizie, o no?
“Ovviamente no!” Replicò lei.
Mentre stava dentro, sognava solo due cose: le donne e la libertà. Adesso si era reso conto che poteva averne solo una alla volta. Questa storia d’amore era una nuova prigionia. Avere il cellulare era come essere agli arresti domiciliari: dovevi essere sempre reperibile.
Al suo compleanno lei gli regalò un videofonino. Così adesso poteva vedere anche dove stava. Gli sembrava di essere al Grande Fratello, l’unica popolazione carceraria che si dispera quando deve lasciare le quattro mura. Dopo due giorni disse che gli era caduto nel cesso mentre si tirava su le brache.
Da quel giorno sembrò che anche la loro storia d’amore fosse finita laggiù con il videofonino.
Tutto per colpa degli sms.
Un giorno ne ricevette uno con una splendida frase d’amore, ma non era per lui, era per un altro. E c’era pure scritto dove lei l’avrebbe aspettato.
E fu così che dopo tredici anni per tentato omicidio, se ne fece altri trenta per omicidio riuscito.
Trent’anni spesi a pensare che è stato tutto colpa degli sms.
http://blog.sms-pronti.com/
domenica 22 aprile 2007
Solo un pensiero
"Cosa posso raccontarti su tua madre?" Disse il padre, al figlio mai nato.
"Quando ero giovane, e non la conoscevo ancora, guardavo sempre tua madre attraverso il finestrino dell'auto, ammaliato dai suoi splendidi occhi blu. Lei si muoveva sinuosa come nessun'altra, la bocca spesso socchiusa, sensuale, dalla quale traspariva una lingua rossa come il fuoco. Mi faceva morire sai?
Passava ogni mattina alla stessa ora, sempre in compagnia di un uomo alto che la trattava in malo modo.
Dove andassero è difficile dirlo. Io partivo spesso a quell'ora con Marzia per andare all'Università. Lei lavorava li, come me del resto. Marzia stava in ufficio mentre io ero adibito ad un ruolo un po' più di routine, da guardiano. Cosa ci fosse di importante all'Università per metterci qualcuno di guardia, non l'ho mai capito, ma del resto io sapevo fare solo quello e quindi mi sono adattato.
Una mattina però qualcosa andò diversamente. Marzia aveva lasciato il finestrino della Punto giù del tutto, invece dei soliti dieci centimetri. Piccoli segni del destino.
In quel momento passò Lei, come tutte le altre mattine.
L'uomo con il quale stava, si fermò di colpo a parlare con una biondina che sembrava non vedesse da una vita e si disinteressò di tua madre, che continuò per la sua strada.
Ricordo d'aver pensato: "Adesso o mai più".
Fu così che decisi di uscire dall'auto e di seguirla. Ricordo che Marzia mi urlò dietro qualcosa del tipo: "Dove vai? Guarda che ti mollo qui!"
Amen.
Quando girò l'angolo, io ero già a pochi passi da lei. Si voltò. Ci fissammo negli occhi.
Non ci fu neanche bisogno di parlare. Facemmo l'amore lì, sul prato, e tra l'altro neanche tanto al riparo da occhi indiscreti. Parecchi passanti ci guardarono e sorrisero. Sembravano contenti per noi.
Eravamo quasi alla fine, quando dall'angolo spuntò il suo uomo che aveva mollato la biondina. Ci vide ed iniziò ad urlare come un indemoniato. Correva verso di noi dimenando in aria una catena che teneva in mano.
Lei si spaventò e si mise a correre in tutt'altra direzione. Ed accadde l'irreparabile.
Attraversò la strada di corsa mentre i suoi occhi blu continuavano a fissarmi anche mentre scappava. Fu così che finì sotto un autobus. Non restò molto di lei.
Il suo uomo si mise a piangere come un bambino, in ginocchio, a due metri scarsi dal suo corpo. Io preferii andarmene. Avevo già visto altre volte quello spettacolo. E non valeva la pena.
Ogni tanto, ripenso ancora a quel momento, a noi due, mentre facevamo l'amore. A quello che sarebbe stato se fosse rimasta viva. Forse ora tu esisteresti figlio mio, non saresti solo un pensiero di ciò che sarebbe potuto essere ma non è stato. Ed io, te e tua madre, correremmo felici nei prati ed io potrei leccarti di tanto in tanto. Ma forse non saresti neanche nato. Tua madre aveva il diabete. Si vedeva dai suoi occhi blu e probabilmente sarebbe morta prima che tu nascessi. Forse era destino che tu rimanessi solo un pensiero. In fondo, non ti avrei mai visto crescere e tu saresti stato l'ennesimo bastardo abbandonato sull'autostrada prima delle ferie. Insomma, la solita storia di una vita da cani."
Link sul tema:
http://www.boxerdelgranmogol.com/Versione%20Italiana/Home_Italiana.htm
"Quando ero giovane, e non la conoscevo ancora, guardavo sempre tua madre attraverso il finestrino dell'auto, ammaliato dai suoi splendidi occhi blu. Lei si muoveva sinuosa come nessun'altra, la bocca spesso socchiusa, sensuale, dalla quale traspariva una lingua rossa come il fuoco. Mi faceva morire sai?
Passava ogni mattina alla stessa ora, sempre in compagnia di un uomo alto che la trattava in malo modo.
Dove andassero è difficile dirlo. Io partivo spesso a quell'ora con Marzia per andare all'Università. Lei lavorava li, come me del resto. Marzia stava in ufficio mentre io ero adibito ad un ruolo un po' più di routine, da guardiano. Cosa ci fosse di importante all'Università per metterci qualcuno di guardia, non l'ho mai capito, ma del resto io sapevo fare solo quello e quindi mi sono adattato.
Una mattina però qualcosa andò diversamente. Marzia aveva lasciato il finestrino della Punto giù del tutto, invece dei soliti dieci centimetri. Piccoli segni del destino.
In quel momento passò Lei, come tutte le altre mattine.
L'uomo con il quale stava, si fermò di colpo a parlare con una biondina che sembrava non vedesse da una vita e si disinteressò di tua madre, che continuò per la sua strada.
Ricordo d'aver pensato: "Adesso o mai più".
Fu così che decisi di uscire dall'auto e di seguirla. Ricordo che Marzia mi urlò dietro qualcosa del tipo: "Dove vai? Guarda che ti mollo qui!"
Amen.
Quando girò l'angolo, io ero già a pochi passi da lei. Si voltò. Ci fissammo negli occhi.
Non ci fu neanche bisogno di parlare. Facemmo l'amore lì, sul prato, e tra l'altro neanche tanto al riparo da occhi indiscreti. Parecchi passanti ci guardarono e sorrisero. Sembravano contenti per noi.
Eravamo quasi alla fine, quando dall'angolo spuntò il suo uomo che aveva mollato la biondina. Ci vide ed iniziò ad urlare come un indemoniato. Correva verso di noi dimenando in aria una catena che teneva in mano.
Lei si spaventò e si mise a correre in tutt'altra direzione. Ed accadde l'irreparabile.
Attraversò la strada di corsa mentre i suoi occhi blu continuavano a fissarmi anche mentre scappava. Fu così che finì sotto un autobus. Non restò molto di lei.
Il suo uomo si mise a piangere come un bambino, in ginocchio, a due metri scarsi dal suo corpo. Io preferii andarmene. Avevo già visto altre volte quello spettacolo. E non valeva la pena.
Ogni tanto, ripenso ancora a quel momento, a noi due, mentre facevamo l'amore. A quello che sarebbe stato se fosse rimasta viva. Forse ora tu esisteresti figlio mio, non saresti solo un pensiero di ciò che sarebbe potuto essere ma non è stato. Ed io, te e tua madre, correremmo felici nei prati ed io potrei leccarti di tanto in tanto. Ma forse non saresti neanche nato. Tua madre aveva il diabete. Si vedeva dai suoi occhi blu e probabilmente sarebbe morta prima che tu nascessi. Forse era destino che tu rimanessi solo un pensiero. In fondo, non ti avrei mai visto crescere e tu saresti stato l'ennesimo bastardo abbandonato sull'autostrada prima delle ferie. Insomma, la solita storia di una vita da cani."
Link sul tema:
http://www.boxerdelgranmogol.com/Versione%20Italiana/Home_Italiana.htm
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